PAESAGGI COME METAFORE FRA INTERIORITÀ E MEMORIA

Qualifiche dell'autore: 
docente di Metodologia della critica d'arte all'Universita' di Bologna

Questi dipinti di Salvatore Girgenti, testimonianza di un itinerario artistico di quasi un trentennio, ci riportano a uno degli aspetti più significativi del paesaggio occidentale in un percorso che dai romantici giunge fino alle avanguardie storiche. In che senso è legittimo affermare ciò? Nel senso che il nostro artista, nel dare piena autonomia – nei modi propri del suo linguaggio – a tale genere pittorico, tematizza, attraverso queste descrizioni naturalistiche, una fenomenologia di stati d’animo che rimandano non solo all’ambito della propria sfera esistenziale, ma toccano altresì caratteristiche più universali riguardanti il rapporto di ognuno di noi con l’ambiente in cui viviamo, con il contesto naturale e con dimensioni originarie che fondano la nostra stessa vita.

Il punto di riferimento fondamentale, come garante della memoria, è la terra siciliana colta nelle sue evidenze collinari, campestri, marine, che Girgenti registra e trasfigura con partecipata attenzione nelle sue intermittenze oggettive e facendone emergere la multiforme dialettica. Si tratta di una visione plurale in cui ombre e luci, tonalità fredde e calde e le infinite variazioni cromatiche divengono gli emblemi significativi di una fenomenologia psicologica dove gioia e dolore, entusiasmo e rassegnazione, speranza e nichilismo si armonizzano e si compenetrano in struggenti esiti pittorici.

Anche se non può definirsi tout court un pittore realista, Girgenti non crea ex nihilo. E ciò in un duplice senso. Innanzitutto perché, come si diceva, il punto di riferimento è una realtà geograficamente (e biograficamente) determinata, rivissuta e trasfigurata attraverso dimensioni psicologiche in cui si fondono nostalgia e rimembranze in una prospettiva di sensibile esistenzialismo; in secondo luogo per ragioni estetiche, in quanto nelle sue opere sono ravvisabili tracce stilistiche che risalgono alla stessa cultura artistica del nostro pittore, una cultura che si dimostra sensibile, particolarmente, all’area dell’espressionismo e della sua eredità e porta quindi i nomi di Van Gogh e di Permeke, di Kokoschka e di Morlotti, ma dove anche Cézanne e un certo astrattismo americano sembrano aver giocato un ruolo più o meno intenso.

Girgenti fa dei suoi paesaggi il mondo, nel doppio senso, da un lato, del suo mondo, di qualcosa cioè che risulta inestirpabile dalla propria vita e, dall’altro, nel senso che nessuna partecipazione al mondo reale nella sua generalità, globalità e universalità gli risulta possibile se recidesse i legami con quelle dimensioni originarie costituite dai luoghi, dai ricordi, dagli affetti nei quali e attraverso i quali egli ha preso coscienza di Se stesso e degli Altri, del Bene e del Male, della Vita e della Morte, della Speranza e del Nulla. E, a tal proposito, non possono non venire in mente le parole del romantico (tedesco) Caspar David Friederich, il quale notava che il pittore “non deve soltanto dipingere ciò che vede davanti a sé, ma ciò che vede in sé; se però in sé non vede nulla tralasci pure di dipingere ciò che vede davanti a sé”. Parole emblematiche di tutto un versante, a cui appartiene anche Salvatore Girgenti, dell’arte occidentale che ha dimostrato con convinzione di dare maggior rilievo alla dimensione spirituale ed interiore della creazione pittorica che a quella autonomamente formalistica, oppure mimetico-referenziale (realistica).

Attraverso le sue creazioni – in cui sovente la sensibilità verso la metamorfosi e la surrealtà giocano un loro preciso ruolo – Girgenti dimostra non secondariamente di essere poeta in pittura. E lo è, in riferimento a queste opere, nel senso che tali paesaggi si pongono come la declinazione plurale e diversificata di stati d’animo, di moti interiori, di ricerca, sempre aperta, di un’identità, di un equilibrio, anche quando i contorcimenti (degli alberi) divengono più palesi, i luoghi più angosciosi e le luminosità più ambigue; riflessi, per usare il linguaggio stesso di una poesia del nostro artista, dell’“arida estate”, dell’“avaro inverno”, del nostro “vaneggiare insonne”, di un’“autentica patria” (interiore e intersoggettiva) “negata per sempre”. Ma in Girgenti le dimensioni di maggiore drammaticità si coniugano sovente con bagliori altrettanto intensi dove protagonista diviene, appunto, la luce che si declina nei suoi infiniti riflessi e animante, di conseguenza, con entusiasmo, l’azzurro del mare, il rosso dei papaveri e il giallo allucinato dei campi.

Questi dipinti si presentano, quindi, come un progetto tendenzialmente totalizzante in cui ogni dimensione è vista e considerata nella prospettiva di una dialettica dove lo slancio vitalistico non si separa dalla disillusione, il rigoglio della natura dalle distese desolate, il solido dal liquido, la concretezza fisica del reale dalla sua smaterializzazione. E forse questa stessa pittura non è separabile da un progetto più ampiamente poetico in cui la visione delle cose si coniuga con la loro interpretazione metafisica. Un progetto di ipotetica e non formalistica Ars nova in cui l’arte medesima, come l’aurora, giunga, per usare le stesse parole dell’artista (poeta), da un insepolto cumulo di ansie, quale presagio non illusorio di liberazione.