COME INDUSTRIALIZZARE I BENI CULTURALI

Qualifiche dell'autore: 
ingegnere, presidente dell’Impresa Costruzioni Scianti SpA, Modena

Attraverso il restauro di alcuni dei più importanti monumenti di Modena (dal Palazzo Ducale al Teatro Storchi, per citarne soltanto due), eseguiti nel corso di centocinquant’anni di attività nel settore edile, l’Impresa Scianti ha contribuito alla valorizzazione anche economica dei nostri beni architettonici. Se è vero che, come lei sottolineava in un recente articolo sul nostro giornale, i beni architettonici e artistici sono la vera materia prima dell’Italia, in che modo potremmo farli divenire parte del PIL e qual è la politica industriale che dovremmo adottare?

Purtroppo l’Italia è disunita, c’è uno scollamento, anziché quella sinergia di forze che servirebbe per un processo di industrializzazione della nostra “materia prima”, del nostro “petrolio”, come possiamo definire i beni culturali. Questo accade in tutti i settori, compreso quello manufatturiero, dove l’imprenditore vende il suo prodotto nel mondo attraverso azioni individuali, senza una struttura pubblica alle spalle che le supporti, come invece accade in altri paesi come per esempio la Germania o la Francia, che da questo punto di vista sono molto organizzate. Noi abbiamo il difetto di essere solitari in qualsiasi cosa e anche i beni che costituiscono il nostro patrimonio sono “solitari”, nessuno li organizza in modo che divengano un valore economico e un valore di storia e memoria utile alla collettività. Questo avviene perché vige una visione sociale ristretta, aperta solo apparentemente, ma nella realtà è la più retrograda e conservatrice che possa esistere, perché non è in grado di mettere i nostri beni a disposizione della comunità sia nazionale sia internazionale. I nostri musei, che sono i più belli al mondo, non hanno la stessa fama di alcuni musei di altre nazioni, che sono di quart’ordine rispetto ai nostri; tra l’altro, occorre dire che mentre i nostri musei ospitano opere prodotte nel nostro paese, i musei americani, per esempio, devono acquistarle. Se i nostri musei fossero inseriti in un circuito tale da suscitare un richiamo forte, questo potrebbe comportare una valorizzazione, non solo dell’arte in sé, ma anche delle attività turistiche e alberghiere che vi ruotano intorno. 

Un altro aspetto in cui il nostro paese è ancora carente è quello della viabilità, delle infrastrutture, che rappresenterebbero un catalizzatore e un volano per l’industria turistica in generale e la promozione dell’arte in particolare. Ma questo non è ammissibile in un paese civile, che deve avere collegamenti veloci e sicuri, soprattutto se consideriamo che la chiave di volta del futuro per noi è il turismo. Altre nazioni, come la Grecia e la Spagna, hanno fatto passi notevoli in questo senso, sottraendo quote di mercato al nostro paese, proprio grazie alla loro capacità di offrire maggiori servizi e una viabilità efficiente, che consente di raggiungere in poco tempo le loro località balneari, oltre che i loro siti archeologici e artistici. 

Eppure, noi disponiamo di entrambi i tipi di attrazione e, per di più, in misura di gran lunga maggiore, se pensiamo al numero di città d’arte, di musei e di beni paesaggistici distribuiti lungo l’intera nostra penisola. Per non parlare delle opere di cui abbondano i depositi dei musei: un esempio fra tutti è quello della nostra Galleria Estense. Ma si calcola che, addirittura, l’80 per cento delle opere d’arte che costituiscono il patrimonio italiano sia conservato nei depositi dei musei, anziché nelle sale espositive.

Allora, non possiamo non rammaricarci di questo spreco, di questa politica – o assenza di politica industriale – che continua a trascurare una materia prima che non costa, non inquina e potrebbe aumentare in modo interessante la nostra ricchezza. Al contrario, quella in atto è una politica burocratica di dinieghi e di vincoli, da una parte, e di conservazione indistinta di qualsiasi oggetto purché sia antico, dall’altra. E così le sovrintendenze sono sommerse di lavoro e non riescono a rispondere nei tempi brevi che richiederebbero importanti attività come, per esempio, il restauro di un palazzo storico che deve essere restituito alla vita della città. 

Quali attività potrebbero sorgere a partire dal vostro lavoro di restauro?

A Modena, non appena si avviano gli scavi per eseguire un lavoro stradale, si scopre un’intera città sotterranea: in via Saragozza, per esempio, sono stati rinvenuti diversi reperti romani e, addirittura, un tempietto dedicato a Minerva. Poiché la Provincia ha in programma un’opera di ristrutturazione in quella zona, occorrerebbe approfittarne per raccogliere questi e altri reperti di cui la nostra città è ricca ed organizzare un parco archeologico in un’area verde, che andrebbe ad aumentare la nostra offerta turistica.

Forse, un altro modo per valorizzare il nostro patrimonio sarebbe quello di favorire l’iniziativa di giovani che, avendo visitato musei in tutto il mondo, potrebbero sviluppare business nel settore dell’arte nel nostro paese… 

Sicuramente sarebbe auspicabile coinvolgere i giovani. A Modena, la Promo, una società promozionale pubblica, ogni due anni indice un concorso, Intraprendere, rivolto ai giovani che hanno idee da proporre per attività imprenditoriali. Questa iniziativa dovrebbe essere estesa a tanti settori e dovrebbe nascere un nuovo mecenatismo – di privati, banche e imprese –, capace di scommettere sulle idee dei giovani.