LA MATERIA DEL DIRE E DEL FARE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Nel discorso occidentale la materia è sempre stata pensata come massa inerte e amorfa, in attesa di un’anima o di una forma che la vivifichi o la organizzi. Una materia soggiacente, sostanziale (pròton hypokéimenon, “soggetto primo”, la considerava Aristotele), sostrato base per il divenire, dunque esente da divenire. Una materia morta, di cui l’arte deve occuparsi o che deve subire una formazione, una materia al di fuori della parola, che deve significarla o formalizzarla. La linguistica del Novecento, per esempio con Louis Hjelmslev, ha cercato la materia nella parola, ma in molti casi solo per semiotizzarla, cioè per fornirle un senso, per decifrarla nei termini di messaggio. L’operazione non è riuscita a esorcizzarla, anzi è valsa a marcarne l’irriducibilità e l’inafferrabilità.

Eppure, quanti sono i mestieri e le professioni sorti per isolare, localizzare, sanare la materia della parola, la materia senza sostanza? Tra questi, la psichiatria, che ha definito malattia mentale, segnatamente psicosi, quel che del pensiero, della scrittura, della parola stessa sfugge al senso presunto, al sapere precostituito, al principio aristotelico di non contraddizione, facendo così della materia del dire una malattia. Nell’atto di parola, in modo strutturale, qualcosa non soggiace all’interrogazione, resiste a ogni comprensione e a ogni sistematizzazione: questa portata materiale della parola mina la base dell’organizzazione sociale e non supporta l’economia politica, ma lungi dall’indicare una mancanza, risulta un’eccedenza, un debordamento che trae alla scrittura e all’invenzione. La psicosi allora non è una malattia del pensiero, anzi, quella che la psichiatria chiama psicosi è la materia della parola.

Sottolinea che la materia della parola e del pensiero non può essere malata Thomas Szasz, anche con il libro La mia follia mi ha salvato. La follia e il matrimonio di Virginia Woolf (Spirali), discusso a Bologna in un convegno di cui pubblichiamo in questo numero alcuni brani degli interventi. Thomas Szasz dimostra che Virginia Woolf non era malata, diversamente da quel che molta critica ha sostenuto per giustificare l’arte e il carattere della scrittrice, secondo l’ideologia romantica che crede mescolati, se non coincidenti, il genio e la follia. La materia della scrittura è materia intellettuale, sottolinea nel suo intervento Augusto Ponzio, e non può ridursi a materia psichiatrica, per esempio attraverso la psichiatrizzazione dell’autore: quando all’analisi del testo sostituiamo l’analisi dell’autore come soggetto, la via è aperta per la ricerca della malattia. Infatti, la credenza nella malattia presuppone la credenza nel soggetto, nel soggiacente, in quel che sta sotto (l’hypokéimenon aristotelico) la scrittura, di cui dovrebbe dare il senso.

La materia intellettuale è senza soggetto e senza sostanza. Materia come dimensione della parola, dimensione non spaziale, non lineare, non sottostante né sovrastante. Materia del dire, dire secondo la dimensione di materia: le cose che si dicono si fanno e facendosi si scrivono, ecco la procedura intellettuale, non sostanziale, per cui la materia non può essere malata, dunque non ha bisogno dell’esercito della salvezza degli psichiatri e dei coach, degli psicoterapeuti e dei counselor. Di questa materia è costituita l’industria, che può così definirsi struttura materiale delle cose. Struttura materiale, ovvero intellettuale. Potrebbe l’industria poggiare sulle sostanze, potrebbe vivere di soggettività? L’imprenditore o il bancario che innanzi alla crisi confidasse nelle sostanze – e anche la mentalità è una sostanza –, anziché attenersi alle logiche della parola, attraversate dalla materia intellettuale, cercherebbe soluzioni e rimedi, oppure si ridimensionerebbe, con tanti buoni propositi e seguendo miti consigli. Mentre l’industria esige arte e invenzione, e non può dimensionarsi: la dimensione non è relativa, non è né grande né piccola, è incommensurabile, intrattabile, spropositata perché è dimensione materiale. I materiali stessi non sono sostanziali, non sono inerti, come indicano gli interventi degli imprenditori pubblicati in questo numero, che constatano che la materia non si lascia trattare, ma è materia di enigmi irresolubili. E l’assenza di soluzione è la condizione dell’arte e dell’invenzione.

In quanto non è inerte, la materia intellettuale vanifica ogni fatalismo e chi lo supporta, il soggetto. Fatalista è chi si fa vittima della propria e dell’altrui soggettività, incompatibile con l’impresa. In questo senso l’impresa è intellettuale o non esiste.

L’impresa intellettuale è qualificata dall’assenza di soggettività e di mentalità, non da quel che produce, che siano manufatti o informazione: quest’ultima, spesso, è totalmente inintellettuale, crede di poter trattare la materia della parola e si ritrova nel pettegolezzo.

Intrattabile la materia intellettuale. Da cui il tratto, la trattazione, il ritratto. Chi osa oggi trovarsi nella trattazione dell’impresa, nella sua scrittura, anziché trattarla come materia inerte? Questo giornale è in direzione del ritratto dell’impresa, ritratto materiale, cioè senza quell’indifferenza che regna in materia d’industria quando la materia è presunta massa. Ritratto intellettuale in cui le cose che si fanno si scrivono in direzione della qualità, ritratto che scrive non la case history ma il caso dell’unicità.