VIRGINIA WOOLF, CASO DI QUALITÀ

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cifrematico, direttore della cooperativa “Sanitas atque Salus”

Per Freud, ciascuno è caso di vita, caso che si scrive vivendo. Egli stesso, in numerose occasioni, si definì biografo dei casi che incontrava, così come s’interessò con efficacia e originalità a casi tratti dalla cronaca, dalla storia e dall’arte, in alcuni scritti come Il caso clinico del presidente Schreber, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, Il delirio e i sogni della “Gradiva” di Wilhelm Jensen, Il Mosè di Michelangelo. Altri autori, dopo anni di ricerca e di pratica riguardanti la clinica, il disagio, le cosiddette problematiche psichiche, a un certo punto hanno avvertito l’interesse e l’esigenza di affrontare casi noti nella letteratura, nella storia, nell’arte, nella musica, talvolta nella cronaca, apparentemente mettendo a frutto la propria esperienza professionale e di ricerca, in realtà ponendo in gioco qualcosa che li riguarda e che interviene in un momento particolare dell’elaborazione. A questo passo non si è sottratto nemmeno il grande psichiatra e psicanalista Thomas Szasz. Noto in tutto il pianeta per le sue battaglie libertarie, antiproibizioniste, “non psichiatriche” e per quelle civili e legali per sensibilizzare governanti, scienziati e cittadini sui pericoli derivati dall’abuso di psicofarmaci e dalle pratiche d’internamento coatto, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui quello di “Eroe della libertà” negli Stati Uniti. Noto come scrittore e saggista: molti suoi testi, Il mito della malattia mentale, La battaglia per la salute, Farmacrazia, pubblicati in Italia da Spirali, Il mito della droga, Il mito della psicoterapia, il celebre Schizofrenia simbolo sacro della psichiatria, tradotti in più lingue, sono pietre miliari delle tematiche “non psichiatriche”. Il titolo del suo ultimo libro, La mia follia mi ha salvato. La follia e il matrimonio di Virginia Woolf, pubblicato in Italia da Spirali, trae spunto dalla frase “La mia follia mi ha salvato”, che si trova in una lettera della scrittrice inglese all’amico pittore Jacques Raverat. In questo libro, Szasz rilegge la vita di una delle più rivoluzionarie scrittrici del Novecento, dall’infanzia fino al tragico epilogo del suicidio, cogliendone i lati più nascosti e meno esplorati, in contrasto con il discorso dominante, dalla critica letteraria alla psichiatria. Un’opera che riscopre Virginia Woolf, andando oltre la sua rappresentazione di genio malato che la vorrebbe divisa tra genio e follia.

Secondo Szasz, qui nella duplice veste di scrittore e psicanalista, Virginia non era vittima né della malattia mentale, né del marito, né, quasi paradossalmente, della stessa psichiatria, anche se l’autore si chiede esplicitamente come mai entrambi non si siano rivolti alla psicanalisi, che pure conoscevano bene. Leggendo il libro, si rileva come Virginia non potesse essere definita “semplicemente” folle, ovvero “posseduta dalla follia”, in termini tradizionali, al contrario quasi “possedeva la sua follia”. Szasz nota come sia Virginia sia il marito Leonard abbiano usato nella loro vita l’idea di follia e la pratica psichiatrica cui fu sottoposta Virginia per gestire e manipolare a vicenda le loro vite, facendo entrare e uscire di scena il fantasma della malattia mentale per tutta la loro esistenza. Anche le loro difficoltà matrimoniali furono affrontate facendo recitare a Virginia la parte d’invalida mentale e di genio letterario e a Leonard, che fu editore dell’opera di Freud in inglese, quelle di protettore, infermiere psichiatrico e impresario letterario della moglie. Matrimonio e follia furono dunque, come spesso accade, una volta di più due maschere dietro cui entrambi si celarono per nascondere le proprie difficoltà o per meglio perseguire le proprie ambizioni, in fondo dettate da aspetti perbenistici e di relazione sociale.

Nella lettura di questo libro ho trovato aspetti inattesi di Szasz o, meglio, intravisti solamente in filigrana nei suoi libri precedenti o nei suoi articoli, e l’opera nel suo insieme è più complessa delle altre. Credo si possa affermare che questo libro di Szasz sia molto differente da ciascuno di quelli che l’hanno preceduto, come se l’autore avesse trovato un ostacolo che l’ha obbligato a un altro approccio, a un ragionamento altro rispetto a quello che aveva informato la maggior parte dei suoi testi precedenti, e credo che la “questione donna” non ne sia esente. Certamente, è proprio quell’autrice donna di cui si accinge a parlare e la sua vicenda di vita che lo riguarda e, per certi aspetti, lo provoca. E, alla lettura completa del libro, si avverte come il caso Virginia Woolf non sia solamente caso di vita e caso clinico, ma non possa prescindere dal caso di qualità e dalla sua cifra: cioè dalla sua scrittura e dalla sua produzione letteraria. E a questo c’indirizza in particolare l’edizione italiana, con la bellissima introduzione di Susan Petrilli, che si è avvalsa della propria ricerca e di quella condotta con la cifrematica, occupandosi della questione donna per oltre trent’anni della sua elaborazione.