LA CARTA DELLA PAROLA
Chi è interessato alla comunicazione ideale, senza la scrittura, come Platone, o chi bada soltanto all’azione, senza la parola, come il luogo comune, diffida della carta. “Sì, sulla carta è così, però...”, enuncia chi cerca la sostanza, il concreto, i fatti. Così la carta diviene ideale, e innanzi all’ideale ogni testo è cartastraccia, tutti i documenti sono scartoffie. E quel che è di carta non vale niente, non fa nemmeno paura, come la tigre a cui Mao Tse Tung paragonava il capitalismo, “una tigre di carta”, diceva.
Carta, dal greco chàrtes, la parte interna del papiro. O dal latino quarta, che allude alla piegatura del foglio in quattro, come quaderno? La carta e il foglio. Innanzi tutto superficie, apertura. Carta bianca: questione aperta, non il principio di selezione. Sulla carta: la carta al posto della parola – carta d’identità, testo sacro, “carta canta” – o carta della parola, con cui si gioca e si forma la partita della vita? Con la carta della parola quel che si dice si fa e si scrive, in assenza di sistema, gruppo, insieme, perché non è la carta del dialogo che, da Platone a oggi, offre l’ultimo farmaco della salute pubblica, governata dall’idea di bene. Mentre il dialogo fonda la risposta, dunque procede dalla chiusura, la carta della parola procede dall’apertura. È la carta del viaggio, in direzione del valore. Pertanto è la carta della tolleranza, la carta della politica, la carta della diplomazia, la carta del commercio, la carta dell’impresa, la carta della città.
L’impresa esige la sua carta, la carta intellettuale dell’impresa che, con questo numero, incominciamo a scrivere. Per incominciare e per debuttare. Carta costituzionale? L’azienda non ha bisogno di una norma fondamentale, di principi a cui sottoporsi. La carta della parola non s’istituzionalizza, è la carta dell’esperienza e della sua scrittura. Carta dei diritti? Diventerebbe carta delle pretese, ma all’imprenditore non basta che ci sia chi lo difenda e lo rappresenti, tanto meno presso i palazzi della politica. La carta dell’impresa implica le logiche della parola: è la carta della speranza, che per l’imprenditore non viene mai meno, nemmeno in condizioni estreme; è la carta della fede, fede nella riuscita che non ammette alternative; è la carta della solitudine, perché l’equipe non serve come aiuto o rimedio; è la carta della dimensione, in quanto l’impresa non si valuta dalla grandezza, ma secondo la materia della sua esperienza; è la carta del funzionamento: nessun ruolo o posto fisso nell’impresa, che esige brainworkers, non burocrati.
L’impresa stessa non ha un ruolo morale o sociale, per questo non può limitarsi a una carta etica, che esprima prescrizioni e regolamenti in nome di un presunto bene comune. Non deve adeguarsi ai valori conformisti, occorre che giunga al valore, secondo la sua particolarità, con un processo di valorizzazione della sua ricerca e del suo fare che richiede la carta intellettuale. Con questa carta, l’impresa entra nella narrazione, dunque è pragmatica; non racconta il suo caso, ma diviene, con il racconto, caso di qualità. La carta intellettuale ospita la scrittura dell’impresa, con cui ciascuna cosa procede per integrazione dall’apertura e si rivolge alla qualità. Infatti, come nota in questo numero Paolo Moscatti, per il valore dell’impresa non basta il riferimento al MOL o all’EBIDTA, ma importa come l’impresa si fa e si scrive; né servono gli standard, che non tengono conto della specificità e del ritmo di ciascuna impresa. Se la carta è intellettuale, il business plan, i bilanci, le scritture contabili non sono dati al di fuori della parola, da interpretare secondo i ricordi dei burocrati, ma esigono una lettura che proceda dall’apertura lungo l’ascolto e l’intendimento. L’impresa non ha bisogno di favoritismi o di agevolazioni dalla burocrazia amministrativa e fiscale che, anzi, di favoritismi si nutre, ma richiede che le sue innovazioni nella propria organizzazione, nella propria amministrazione, nelle proprie procedure non vengano riportate al dejà vu, dunque osteggiate, limitate, punite dallo Stato burocratico.
La carta serve a dare all’impresa le proprie regole, a fondare l’impresa nell’autonomia? Oppure soltanto a difenderla dalla politica, dal mercato, dalla finanza che valutano il suo valore al prezzo di realizzo in caso di liquidazione o di acquisto quote? Qualificare la carta dell’impresa come intellettuale rileva dalla constatazione che, come indica il libro di Roberto Ruozi Il valore dell’impresa (Spirali), l’impresa non può essere valutata con criteri oggettivi ovvero limitati al valore dei beni, degli immobili, dei materiali. Il patrimonio dell’impresa è intangibile e irrappresentabile, alluso appena dai suoi marchi, dalla sua direzione, dalla sua memoria, dalla sua strategia. Valori che non si vedono, ma che si scrivono all’attivo della carta intellettuale. La scrittura dell’impresa è la scrittura del programma che poggia sul rischio e sulla scommessa, non sulle coperture e sulle sostanze, e si avvale dei dispositivi di parola, organizzativi, operativi, pragmatici, oltre che dei macchinari e della tecnologia. Intellettuale è il dispositivo: dispositio, per Quintiliano, è il ritmo, non il sistema o il meccanismo. Il valore dell’impresa risulta il valore dei suoi dispositivi intellettuali, la carta intellettuale dell’impresa è la carta del suo valore insostanziale, del suo valore intellettuale. Questa è la carta da giocare per la riuscita.