IL MANIFATTURIERO È ESSENZIALE PER L’ITALIA

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente di Sefa Holding Group S.p.A., Bologna

L’Italia è il secondo produttore e consumatore di acciaio nell’UE ed è il primo consumatore pro-capite di acciaio al mondo. Tuttavia, rischia di uscire dalla produzione mondiale dell’acciaio a causa della mancanza di politiche industriali mirate. Del resto, è noto come la concorrenza sempre più agguerrita e sleale di paesi asiatici, Turchia e Russia in testa, influisca pesantemente sulla produzione siderurgica italiana, che deve fare i conti anche con i costi dell’energia superiori del 30 per cento rispetto a quelli sostenuti dalle imprese concorrenti in Europa…

Negli anni settanta, Bologna era il centro di riferimento nella produzione di stampi. In quel periodo, tutti i giorni nasceva un’officina nuova. In particolare, due grandi aziende hanno influenzato la crescita del settore, la B.M.A. di Battilani, Marchesi e Amadesi e la Fonderpress SpA, che avevano attrezzerie con centocinquanta dipendenti specializzati. Ecco perché in questa zona c’è la cultura dello stampo, espressa dalla manualità e da una specifica formazione che ha favorito la nascita di una miriade di aziende. Negli anni novanta, nel comparto bolognese, si contavano circa seicento attrezzerie di produzione di stampi, con lavorazioni di ogni genere, mentre quelle tedesche erano poco quotate sul mercato. Non a caso qui è nato il primo radiatore in alluminio. Le officine di produzione erano vere e proprie scuole, in cui si sono formati molti validi capo officina, che a loro volta aprivano nuove aziende. La Silicon Valley dei motori è nata in questa zona, che contava almeno trenta diversi costruttori di moto, con fabbriche d’eccellenza: qui sono stati prodotti i primi motorini 48.

La scuola è nell’impresa: quante più nuove imprese nascono, tanto più i giovani si formano e si mettono nelle condizioni di aprire altre imprese. L’investimento di multinazionali negli anni settanta è stato favorito dall’apertura del paese all’impresa. È stato positivo perché da questa industria nascevano altre scuole di pensiero, ciascuno si confrontava, era disposto a investire risorse proprie anziché a vivacchiare. Occorre sostenere le imprese, perché le imprese producono i beni indispensabili per la collettività e in questo modo creano sviluppo. In quel periodo, invece, c’era una mutualità molto forte perché l’obiettivo era lavorare in proprio, c’era il gusto della sfida e del confronto, che oggi sembra perso. Anzi, dinanzi al timore di perdere tutto, si conclude che non conviene. La ricchezza insita nell’impresa sta anche nel fatto che forma le persone a un mestiere e le motiva a divenire cittadini che costruiscono, anziché piangersi addosso. 

Il settore degli stampi è stato molto penalizzato. Il comparto di Bologna era fortissimo in questo campo, aveva le migliori maestranze in assoluto nella lavorazione a caldo dell’alluminio e delle leghe. Negli anni ottanta, c’erano ben cinque magazzini molto grandi, che vendevano acciai da stampi, e una notevole quantità di laboratori a supporto di questa attività. Erano molte le imprese lombarde e tedesche che investivano nel territorio perché assorbiva i consumi di questa materia prima. Non a caso, molte aziende tedesche oggi cercano di accaparrarsi i tecnici rimasti, che hanno la cultura di questi manufatti. Nel settore degli stampi in questo territorio mancano più di tremila posti di lavoro rispetto alla fine degli anni novanta, a causa della chiusura di aziende che non sono state più reintegrate. Per non parlare di quelle chiuse per inquinamento atmosferico o acustico o perché era in atto una speculazione edilizia che riguardava anche le fabbriche: nonostante Bologna si sia data un assetto industriale abbastanza regolare, molti imprenditori hanno dovuto acquistare a prezzi esorbitanti i terreni delle zone industriali. 

Quali sono i pregiudizi che riscontra nel settore siderurgico?

Nella politica di approvvigionamento delle materie prime siamo a una svolta. L’alluminio è inquinante e la sua produzione ha bisogno di energia che nel nostro paese non si riesce a procurare a un costo sostenibile. C’è il pregiudizio che la siderurgia sporchi, ma senza materie prime e senza manifattura non c’è sviluppo: è facile demolire l’industria, ma ricostruirla è quasi impossibile, perché la formazione della manualità e della cultura specifica del settore ha tempi lunghi e non s’improvvisa. 

Se scompare la cultura del manifatturiero anche nelle zone vocate, alle nuove generazioni verranno meno le basi costruite in trenta, quarant’anni di esperienza. La scuola purtroppo non promuove il manifatturiero, con la conseguenza che senza l’industria si limita anche la distribuzione di ricchezza. A parte il settore della moda, le attività industriali e agricole in cui si esplica la manualità produttiva sono molto penalizzate dall’ideologia del non fare, dell’aspettare o del non rischiare, perché ci sarà qualcuno che se ne occuperà. Oggi c’è un revival dell’agricoltura, con giovani coppie che si dedicano al podere familiare, ma spesso si dimentica che creano soltanto un piccolo reddito familiare, che non fa economia, non arricchisce il paese e non sostenta, per esempio, pensionati o strutture ospedaliere. 

Il caso del più grande centro siderurgico d’Europa, l’Ilva di Taranto, sollevato in un momento già critico nel settore dell’acciaio, ha favorito la contrapposizione fra salute e lavoro. Cosa ne pensa?

Riva ha grandi responsabilità, ma l’Ilva era un’azienda di stato fino a dieci anni fa. Se venisse chiusa, sarebbe un dramma per il paese perché non ci sarebbe rifornimento di materie prime se non a prezzi elevati, perché andrebbero reperite in Corea o altrove, dove i costi energetici sono molto inferiori ai nostri, favorendo uno sforzo enorme di esportazione di moneta per l’importazione di prodotti esteri. Sarebbe un’ulteriore ragione per cui lascerebbero il paese le ultime multinazionali rimaste. Il danno della chiusura dell’Ilva avrebbe effetti su tutta la filiera produttiva del nostro paese, considerando che nel settore lavorano centinaia di migliaia di addetti, diretti e non solo. 

La siderurgia italiana deve confrontarsi con le acciaierie della Corea del Sud, per esempio, che hanno un carico fiscale cinque volte inferiore e un costo del lavoro quattro volte inferiore rispetto all’Ilva. Senza contare la miriade di adempimenti ecoambientali che gravano enormemente e che l’Ilva deve attuare immediatamente. 

Oggi esistono tutti gli strumenti per ridurre l’inquinamento, quindi per dare salute e lavoro, ma la salute senza il lavoro non è il massimo. Nel caso dell’Ilva è evidente la connivenza dell’amministrazione pubblica perché all’interno dell’acciaieria è stato costruito un intero quartiere. 

Se un paese crede che l’industria sia un bene vitale, trova gli strumenti per ridurre l’inquinamento e non la contrappone alla salute. Purtroppo potrebbe accadere che a Taranto, credendo di assicurare la salute a trentamila persone, si costringano le altre duecentomila a emigrare. In Italia ci sono regioni completamente deindustrializzate: a Catania, per esempio, ci sono soltanto due officine meccaniche su circa trecentomila abitanti. A Bologna ce ne sono quaranta solo in una delle zone industriali, molte delle quali lavorano esclusivamente per aziende tedesche, che fanno incetta della manodopera specializzata presente nel nostro paese. La cosa è preoccupante. Se non siamo stati previdenti, distruggendo il patrimonio culturale della nostra manualità, gettando via le risorse, le tecnologie e il capitale intellettuale, dobbiamo chiederci perché i nostri giovani non trovano lavoro.

Possiamo mettere i fiori nelle officine per migliorare la qualità della vita del dipendente, dargli più incentivi, ma, senza una decisa politica di rilancio del manifatturiero, anche il dipendente ci rimette. È umiliante questo. Il sistema oggi è pregiudizievole verso questo settore. Nei media non se ne parla oppure se ne parla male, quindi diventa impossibile dare alle nuove generazioni un messaggio positivo del lavoro che si svolge con le mani. Molti imprenditori fanno fatica anche a trasmettere l’approccio costruttivo all’impresa ai propri figli che li vedono preoccupati e appesantiti dalle incombenze burocratiche, mentre i figli dei dipendenti statali vedono i loro padri premiati e a casa dopo le cinque del pomeriggio. Fra gli imprenditori che frequento, molti in questi anni di crisi sono ricorsi a qualsiasi sacrificio pur di salvare l’azienda e i dipendenti. Nelle zone colpite dal terremoto, la preoccupazione di molti imprenditori è stata quella di non perdere i propri collaboratori, la loro manualità, l’intelligenza delle loro mani. 

Cosa occorre in Italia per un rilancio della produzione di materie prime?

Occorre favorire l’investimento in Italia di aziende e multinazionali estere, abbassando le percentuali delle tasse per dieci anni, dando accesso al credito per sostenere l’aggiornamento tecnologico in macchine utensili o impianti, in capitale intellettuale e materie prime. In questo modo si sperperano meno risorse pubbliche per investirle nella produzione di ricchezza. Serve poi una magistratura e uffici sanitari che sappiano valutare qual è il vero inquinamento. Infine, occorre scongiurare la chiusura di industrie come l’Ilva che sono la risorsa di questo paese. Dobbiamo avere una classe politica più costruttiva che promuova l’amore per il nostro paese, anziché mettere gli uni contro gli altri.