IL VIAGGIO E LA CITTÀ

Qualifiche dell'autore: 
architetto, titolare della Edilcelestra, Bologna

Il poeta Borges in una milonga scrisse: “la gente ha l’abitudine di morire”; e parrebbe proprio che non ci sia modo di levargliela.
Può sembrare strano che, interrogato sul tema “il viaggio e la città”, io inizi da quella che viene considerata la fine del viaggio di ogni uomo, cioè la Morte. L’evidenza della morte fa di noi dei pensatori. Da bambini ci crediamo immortali, pensiamo di essere onnipotenti e che tutto il mondo giri attorno a noi, ma poi, quando l’idea della morte cresce dentro di noi, cresciamo con essa, la certezza della morte personale ci umanizza, vale a dire ci trasforma da esseri viventi in esseri umani.

Le piante e gli animali non sono mortali perché non sanno che moriranno: muoiono senza mai essere coscienti del vincolo individuale che ognuno di essi ha con la morte.

Le bestie avvertono il pericolo, si rattristano nella malattia ma ignorano (o, meglio, sembrano ignorare?) il loro legame essenziale con la necessità della morte.
Mortale non è la creatura che muore, bensì la creatura che sa con certezza che dovrà morire.
Tuttavia, è la previsione della morte l’elemento che, nel momento in cui ci rende mortali (cioè umani), ci trasforma anche in viventi. Tutti i compiti e gli impegni che ci prefiggiamo nella vita sono forme di resistenza alla morte, che sappiamo ineluttabile. La morte è un elemento “naturale” e l’uomo per difendersi da questo “attacco della natura” ha inventato la sua più grande opera d’arte, cioè la società umana. Le società umane sono “macchine” dell’immortalità, alle quali noi individui ci colleghiamo per ricevere scariche simboliche e vitalizzanti che ci consentono di combattere l’innegabile minaccia della morte. Il gruppo sociale non può morire, a differenza degli individui.
Non si tratta di scegliere fra natura e società, ma di riconoscere che la nostra natura è la società.
Biologicamente siamo prodotti della natura ma umanamente siamo prodotti e produttori della società. Il luogo dove si uniscono queste miscele di mito e biologia, metafora e istinto, simbolo e chimica, è la città.
La città è il viaggio, o meglio il viaggio che ognuno di noi intraprende quotidianamente insieme all’altro, non importa se ci troviamo di fronte a una città di carattere industriale o rurale, se è un villaggio africano fatto di fango e paglia o è una grande metropoli occidentale in acciaio e vetro. La città è simbolo della nostra storia e in un certo qual modo è simbolo della nostra immortalità.
Camminare all’interno di una città significa trovarsi all’interno di uno spazio artificiale fatto di simboli, di riferimenti al desiderio umano, e alla lotta.
La città è il luogo della grande comunicazione, in quanto è il luogo della diversità, la mattina le persone escono di casa e senza parlarsi si sono già dette tutto. È una comunicazione da simbiosi, che avviene in quanto esistono persone diverse e distinte in grado di rifiutarsi o accettarsi. Maggiore è la “contaminazione culturale” presente in una città, maggiore è la comunicazione simbiotica.
La città determina atteggiamenti e comportamenti; in essa si inscrivono le nostre realtà individuali e collettive.
Da questo la città emerge come un testo di lettura dove contenuto e contenitore sono inseparabili.
Possiamo affermare che l’apparente caos urbano delle città contemporanee non è disordine, bensì l’espressione di un altro ordine, quello del nostro tempo, fatto di libero mercato e di speculazione.
La città è il luogo della pluralità, della coesistenza e della simultaneità, è uno spazio artificiale, all’interno del quale è possibile viaggiare aggrappati ai propri ricordi (senza ibernare il passato), e arricchire il proprio presente con cose arrivate da fuori.