COMUNICAZIONE E IMMUNITÀ

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psicanalista, presidente dell’Associazione “La cifra” di Pordenone

Senza l’apporto della psicanalisi e della cifrematica, che ha precisato lo statuto originario e intellettuale della psicanalisi, la comunicazione è confusa con l’informazione, intesa come passaggio di dati da emittente a ricevente. Questo comporta che, parlando, per esempio con il medico o con l’insegnante, nell’impresa o nella vendita, spesso domini l’idea di un soggetto attivo e di uno passivo. Questa idea è alla base del rapporto sociale, che può sembrare rassicurante in quanto assegna a ciascuno un ruolo. Ma chi si trova, anche nel proprio mestiere, in un dispositivo di parola, nel rischio di parola, in qualsiasi contesto della vita, avverte che il rapporto sociale non regge, che la comunicazione non è un semplice passaggio di dati tra un soggetto attivo e uno passivo, che non sappiamo mai quando diamo e quando riceviamo. È più interessato il paziente a quello che dice il medico o il medico a quello che dice il paziente?
Nessuno di noi, quando rischia, si sente rassicurato dal modello sociale. Ci accorgiamo che l’atto di parola è un evento, che non c’è nessuna possibilità di padronanza sulla parola, sui suoi effetti o sull’evento. Anche la paura lo sottolinea, perché procede dal disagio, inteso anche come dis-agio, cioè impossibilità di sentirsi a proprio agio, laddove c’è l’atto di parola. Lo studente che si laurea, nonostante abbia scritto la tesi e il suo professore gli abbia comunicato le domande che gli verranno poste, trema quando deve esporsi davanti alla commissione, perché avverte che c’è il rischio di parola, anche se tutto sembra stabilito. Ma nella parola nulla lo è.
L’incipit del Vangelo di Giovanni recita: “In principio era la parola”. Già qui sta la constatazione che la parola non è al servizio di qualcuno. Ciascuno è effetto della parola. E che la parola non sia al nostro servizio è una constatazione di ciascuno che si trovi in una scommessa di vita. Per questo, nei totalitarismi, la prima presunzione è di controllare l’atto di parola, che deve idealmente rispondere al protocollo. La parola è vita. Un giorno, dopo una mia conferenza, una persona mi disse: “Lei parla con belle parole, poi si va a casa e la vita è molto diversa”. Questo è un modo di tenersi molto distanti dalla violenza dell’elaborazione. L’elaborazione non può esimersi dalla violenza della parola, non è mai facile o confortevole.
Alla base della comunicazione c’è l’ascolto. Per questo la competenza non serve. Un medico non è rassicurato dalla competenza, anche se ha compiuto una propria ricerca, che pure è indispensabile. Tuttavia, la competenza non lo mette al riparo dal rischio che incontra ciascun giorno nel suo lavoro. Anche per un imprenditore, che magari fa il suo mestiere da quarant’anni, vale la stessa cosa: non c’è competenza che possa garantirlo rispetto al rischio. Soltanto l’ascolto – nell’umiltà, senza pregiudizi, senza ideologie, senza i principi di selezione e del “terzo escluso” – può metterci nella condizione di cogliere gli elementi che emergono nella conversazione, se non è inteso nella coppia emittente/ricevente.
Il termine “comunicazione” è molto interessante, con una costellazione di significanti adiacenti molto ricca: comune, comunità, comunione e altri. Derivano dal latino cum munus, in cui cum sta per insieme e munus per carico, incarico, servizio, strumento, e anche dono. La comunicazione si effettua facendo. Facendo, qualcosa si struttura e diviene strumento, anche per la comunicazione. Armando Verdiglione scrive: “Non si comunica ciò che si fa; si vende quindi si comunica”. Chi vende comunica, occorre la vendita perché ci sia comunicazione. Questo munus è un incarico nell’accezione di servizio; se diventa un incarico “istituzionale” diventa anche un “carico”. Anche nella parola “immunità” interviene il termine munus. Se questo munus è un peso, allora noi soggiacciamo sotto il peso, sotto il carico. Se questo munus invece è il servizio nella parola, allora non c’è la vittima: sta qui l’immunità. Solo se s’instaurasse la coppia emittente/ricevente, se ci fosse chi dà e chi riceve, l’attivo e il passivo, allora ci sarebbe chi carica e chi è caricato: il peso verrebbe rappresentato, a sancire la vittima e il carnefice, l’alto e il basso. Se sussiste questo modello di attivo e passivo, la comunicazione è negata, ed è negata anche l’immunità. Per tale motivo, la lingua della comunicazione è la lingua della salute quando non prevede il nemico o l’amico dinanzi, la vittima e il carnefice, o l’attivo e il passivo.
Non ci si rappresenta l’Altro. La salute dipende dal dispositivo immunitario, che implica la sospensione del modello vittima/carnefice ma, prima ancora, di quello di emittente/ ricevente. Implica, pertanto, la sospensione del rapporto sociale.
Il filosofo Jean Luc Nancy scrive che “la comunità non è semplicemente la collezione di coloro che comunicano, ma è l’intervallo. E questo intervallo è irriducibile alle sue componenti”. Aggiunge: “L’inter dell’in-comune, in breve, dovrebbe essere pensato al di là di qualsiasi logica della soggettività. È come un terzo termine tra l’io e l’altro, e tra noi”. L’intervallo, anche in musica, è una questione molto importante, perché è la combinazione di due note suonate simultaneamente che producono un suono che non è riducibile alle singole note, ovvero alle componenti. È un ‘tra’ che non è fatto dalla somma ‘di’, non è riducibile agli elementi di partenza. La comunicazione non è tra due, non è il dialogo, ma esige il tre. L’intervallo è questo ‘tra’, che non è tra i partner del dialogo, e che esige la comunicazione, non il dialogo.
La narrazione è la base della vita. Non nasciamo in un luogo, in una via, ma nasciamo in un racconto. Quindi, la vita non vale perché siamo, ma perché raccontiamo. In quest’epoca in cui tutto sembra uguale, in cui lo stesso modello di scarpe, o lo stesso kalashnikov, si trovano negli Stati Uniti, nel Sinai, in Siria o in Malesia, la differenza viene dal racconto. È per il racconto che una via non è uguale a un’altra, che un numero civico non è uguale a un altro. Consideriamo anche i cosiddetti “concept store”, negozi che non hanno un solo prodotto, ma che vendono un po’ di tutto se riconducibile a uno stile o a una suggestione: sono il tentativo di agganciare la vendita a un racconto, anche se in questi casi il racconto è standard, concettuale, come suggerisce la traduzione in italiano: “magazzino del concetto”. Però, a loro modo, provano che la forza del racconto non tramonta. Molti autori statunitensi, inglesi, tedeschi affermano che i mestieri che s’imporranno nel futuro saranno sempre più quelli basati sull’arte e sull’invenzione, in quanto non automatizzabili.
Leggere Lolita a Teheran, di Azar Nafisi, è la testimonianza della forza dell’arte e della narrazione che nemmeno i “guardiani della rivoluzione” riescono a sopprimere. Questo e altri romanzi sono stati la risposta narrativa alla dittatura iraniana, una risposta fortissima e un inno di libertà. La casa editrice Spirali ha pubblicato numerosi libri di dissidenti provenienti da vari paesi, straordinario esempio della forza rivoluzionaria della letteratura, dell’arte e della parola.
È importante anche valorizzare, soprattutto rispetto ai giovani, l’arte della parola, la retorica. Oggi c’è un nuovo moralismo, riguardante la comunicazione: tutto ciò che è diretto, autentico, purificato, condivisibile viene ritenuto vero, tutto ciò che non è diretto, che implica l’equivoco, la menzogna, il malinteso, la sfumatura viene ritenuto falso. Invece, la comunicazione diretta è cannibalismo e vampirismo, anche a causa dei social network, dove tutto sembra poter essere condivisibile, nella trasparenza più assoluta, come se non ci fosse una retorica secondo il dispositivo.
L’idea, in questi casi, è che la comunicazione debba sistemare il lutto e il dolore, debba essere totalmente armonizzante, parificante, purificante. Ma questo può comportare effetti imprevedibili, perché l’inconscio non è purificabile. La stessa cosa accade nella comunicazione a proposito del terrorismo. Lo scrittore algerino Boualem Sansal, uno dei pochi intellettuali arabi che mettono in discussione l’ideologia islamista, dice che l’Islam moderato non emerge perché il laicismo proposto dalla Francia, dal Belgio e da altri paesi europei è considerato molto pericoloso dalla famiglia tradizionale islamica, e anche dai moderati. L’ambiente cattolico incute meno paura nel mondo musulmano, perché sostiene il mantenimento delle proprie radici, assecondando in tal modo anche l’integrazione che tenga conto anche della storia delle altre culture. L’inclusione e l’uguale sociale non sono la base dell’integrazione, ma la sua negazione. “Il tabù dell’altrove comporta una lacuna diplomatica”, afferma Armando Verdiglione. Il laicismo è il tabù dell’altrove, e questo implica una lacuna diplomatica. Togliere l’inconciliabile va a vantaggio dell’abitudine, dell’unisex, della normalizzazione, dell’inclusione. Abituarsi a vivere è la cosa più orribile che ci sia. E allora c’è chi sceglie di abbracciare un kalashnikov, piuttosto che abituarsi a vivere, che è l’altro modo di evitare la questione intellettuale.
Il racconto, per ciascuno di noi, esige una lingua non standard, non uguale per tutti. A ciascuno la sua lingua. L’invenzione nella lingua è essenziale alla riuscita, all’approdo, al messaggio. Così la retorica è indispensabile per la salute e per la vita. Pensiamo alla storia della psicanalisi. Freud non poteva scrivere come gli psichiatri del suo tempo. Lacan non poteva scrivere come i medici o come i filosofi degli anni cinquanta e sessanta. Questo avviene anche per la cifrematica. Quando ciascuno di noi si trova nella scommessa e rischia, si trova suo malgrado a inventare una lingua nuova: senza padronanza, senza competenza e con una traversata imprescindibile dal lutto e dal dolore. Gli psicanalisti sono spesso tacciati di “oscurità”, e questo è costato molto alla stessa psicanalisi. In realtà l’oscuro, l’obscurus, è l’ostacolo alla semplificazione, è la condizione stessa, e la garanzia, della ricerca e dello sforzo che porta all’invenzione.
Tra molti nostri intellettuali, come ha testimoniato recentemente anche lo scrittore Antonio Scurati, persiste una sorta di rimpianto per gli anni della seconda guerra mondiale, in quanto anni di battaglia. Invece, la battaglia è ciascun giorno, non abbiamo tempo per la nostalgia, che s’instaura quando non c’interroghiamo più rispetto alla vita, quando non rischiamo più. La lingua della comunicazione è la lingua della battaglia, che non possiamo delegare a nessuno e non possiamo nemmeno attribuire a un periodo storico, a un eroe, a noi stessi o agli altri. Non c’è un accesso diretto a questa lingua, che richiede invece sforzo e invenzione, e è l’unica nostra chance per la salute.