IL VIAGGIO E LE VIE DI COMUNICAZIONE DELL'AVVENIRE

Qualifiche dell'autore: 
presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, docente d'Ingegneria Sanitaria Ambientale all'Università La Sapienza di Roma

Ringrazio gli organizzatori di questo incontro di Bologna, che segue a una prima serie di presentazioni del mio libro Il viaggio dell’avvenire in diverse città, in cui ritenevo fosse esaurita l’attenzione del pubblico. Non credevo che potesse avere un tale successo. È curioso che impiego tanto tempo per scrivere un libro per gli studenti e, invece, da una conversazione tra amici in due giornate nasce un libro così che subito trova un pubblico molto vasto e addirittura un nuovo interesse dopo i fatti di Genova. Infatti, la discussione di questo libro si basa proprio sulla popolarizzazione del processo di globalizzazione. Si è discusso di tecnologia, del tipo di mobilità del prossimo secolo, d’unità della cultura (scienza, tecnica e cultura umanistica) e di tanti altri elementi, ma il centro era questa visione utopistica, per dir così, che sottintendeva una grande speranza, riassunta in questa frase: “Tutto quello che c’è su questo pianeta appartiene a tutti”, cioè a tutti i popoli. Non è così adesso, perché una piccola parte dell’umanità, circa il 20%, possiede l’80% delle ricchezze, mentre l’80% possiede soltanto il 20% delle ricchezze. Questo è il punto. Come arrivare a una situazione d’equilibrio tra i popoli e quindi a un innalzamento delle condizioni di vita culturali di questo 80% e a un acceleramento da parte di quelli ricchi, che hanno diritto certamente a migliorare ma che non possono farlo a scapito di quelli poveri? Da questo punto di vista si è affrontato il problema della mobilità nel prossimo secolo, che oggi, purtroppo, è assicurata soprattutto da mezzi basati sul motore a scoppio. Nel 1970 in Europa circolavano trenta milioni d’autoveicoli, nel 1998 ne circolavano centocinquanta milioni. Poiché sono in crescita costante, il pericolo è che si arrivi fra dieci anni a trecento milioni in Europa. I diagrammi indicano una crescita continua, nonostante il velleitarismo dei paesi ricchi, che predicano il passaggio alle ferrovie, o quella stupidaggine delle autostrade del mare. Certo, vanno rafforzati i porti, il mercato stesso lo vuole. Ma non dobbiamo dirlo solo perché, come recita quell’idea conservatrice, tutto quello che è nuovo è contrario alla civiltà e quindi bisogna andare indietro. La storia dell’autostrada del mare è nata proprio per contrastare la questione del ponte sullo Stretto. Ma non risolve assolutamente niente: si può passare per il mare, ma ciò che può offrire il mare, che da quattromila anni è un’autostrada, è molto limitato. Il problema fondamentale è che noi abbiamo sulla terra questa enorme crescita di macchine che emettono nell’atmosfera scarichi che in passato non c’erano. Questo è il problema. Possiamo continuare con questa tendenza? Io credo di no. Ma dire di no non significa “da oggi in poi eliminiamo le macchine e andiamo a piedi”. Dobbiamo cambiare le macchine. È chiaro che, nonostante per fortuna le particelle pesanti cadano a terra e vengano rilavate e depurate, moltissime rimangono nell’atmosfera. E quindi è evidente che l’inquinamento atmosferico non è un falso problema. È assolutamente necessario arrivare presto al superamento del motore a scoppio, non alla diminuzione del numero di macchine, che anzi aumenterà. Occorre trovare qual è il minor consumo energetico, perché la grande differenza tra i popoli è proprio data dal fatto di possedere energia a basso costo. Se c’è energia a basso costo un popolo si eleva. L’energia a basso costo non può essere ottenuta con gli strumenti attuali. Molti, senza conoscerlo, parlano del protocollo di Kyoto, che in realtà è proposto e voluto dai paesi ricchi per fare in modo che la situazione del pianeta rimanga l’attuale, che quel 20% rimanga sempre il 20% e che l’80% rimanga sempre l’80%. In questo protocollo vengono posti dei limiti alla CO2. Certamente, se le innovazione tecnologiche e la scienza penseranno a ridurre la CO2 nelle produzioni industriali, saranno frazioni. Il problema è che se Cina, India, Pakistan, Nigeria e altri paesi in via di sviluppo, si sviluppassero con la stessa intensità e accelerazione di paesi come l’Europa, il Giappone e gli Stati Uniti, quella CO2 raddoppierebbe o triplicherebbe. Quindi, il blocco della CO2 significa soltanto che i paesi in via di sviluppo devono rimanere indietro, mentre quelli che si sono sviluppati devono continuare a produrre. Ecco perché quel protocollo deve essere considerato solo un segnale: guarda le cose dagli effetti, non dalle cause. Mentre, per guardare le cause bisogna entrare nel merito delle modalità di sviluppo, delle modalità dell’attività della mobilità e dell’attività industriale. E quindi fare sviluppare anche gli altri con modalità diverse: prendere atto che c’è chi produce anidride carbonica e chi produce ossigeno. Perché no? Il Brasile produce ossigeno, gli Stati Uniti producono anidride carbonica, significa che lo sviluppo industriale degli Stati Uniti deve essere, per dir così, anche proprietà del Brasile che fornisce al pianeta l’anidride carbonica necessaria a combattere quel CO2 che viene prodotto dagli Stati Uniti. Quindi, occorre giungere a un concetto planetario di sviluppo e abbandonare quel concetto che isola i paesi industrializzati e emargina i paesi arretrati. Questo è un problema di globalizzazione. Oggi ci sono tre grandi poli industriali nel mondo ma, come in Italia nel primo dopoguerra c’erano tre poli industriali e oggi ce ne sono centinaia, così nel mondo gli ambiti devono allargarsi: il Giappone con il Sud Corea e altri, gli Stati Uniti con l’America del Sud, l’Europa con i paesi balcanici e i paesi di fronte il Mediterraneo devono man mano allargare questo tipo di sviluppo, modificandolo e alla fine coprire l’intero pianeta. Ecco, questa è l’utopia che viene auspicata nel mio libro. Prendiamo il problema dell’energia. Finora si consuma energia secondaria, energia dovuta alla gravità. Si usa l’energia che viene fuori dalla combustione, termoelettrica o di calore. Si usa l’energia proveniente dalla fusione nucleare, che è un’energia secondaria del nucleo. Il problema vero è che questo tipo di energia secondaria viene tenuta ben stretta da parte dei paesi ricchi! Ed è a costi alti, anche costi ambientali, costi non accessibili ai paesi poveri. Per avere energia accessibile ai paesi poveri bisogna invece trovare una fonte che costi poco e che sia prodotta in termini planetari. È la fonte, per esempio, che viene dal sole, quella di fusione dell’atomo. L’energia che sta in una bottiglia. Quando riusciremo a controllare quell’energia che sta nell’atomo e ad avere l’energia da fusione, a bassi costi, quasi senza inquinamento, avremo mobilità a volontà e possibilità per i paesi in via di sviluppo di ottenere quello che ottengono i paesi ricchi. E questa è, anch’essa, un’utopia, se volete. Ma è un auspicio, una spinta che viene dal libro. Attualmente, ci si limita a esaminare la situazione del consumo energetico. Quando la macchina cammina sull’autostrada c’è un consumo dovuto alla resistenza dell’aria e all’attrito di rotolamento delle ruote con l’asfalto; lo stesso col treno, sul ferro. In mare c’è una resistenza addirittura maggiore, perché deve vincere la resistenza dell’aria a livello del mare e in più la resistenza dell’acqua che notoriamente è superiore a quella dell’aria. Quindi, in futuro non c’è dubbio che prevarrà la mobilità aerea, soprattutto nei grandi percorsi. Ma al limite forse anche nelle città, perché ci saranno macchine molto piccole, motori molto piccoli, questi aerei attuali, le macchine Ferrari saranno considerate come noi vediamo le carrozze negli androni dei palazzi patrizi e avremo mezzi di mobilità oggi inimmaginabili ma che sono evidentemente una generazione tale che impedisce a questo pianeta di morire. Perché di questo si tratta. Se arriviamo con questo ritmo all’aumento della mobilità con l’attuale tipo di consumi energetici e d’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, è chiaro che il pianeta è destinato a una brutta fine. Se confrontassimo un litro di aria del 1300 in questo stesso luogo ci troveremmo dieci, quindici elementi chimici, di cui due o tre fondamentali, contro i duemilacinquecento circa di quella attuale. Duemilacinquecento elementi che noi respiriamo in questo momento e che chiaramente non avremmo dovuto respirare. Ma sono elementi che vengono dalla vita cosiddetta civile, e fra qualche anno potrebbero essere cinquemila. Il giustificazionista dice che però nel frattempo l’età media è cresciuta, anzi le donne vivono fino a 83 anni, eccetera. È vero, ma se non ci fosse stato l’inquinamento probabilmente noi potremmo vivere qualche decina d’anni in più e anche meglio perché avremmo minori tipi di malattie, soprattutto respiratorie. Ma veniamo alla questione delle materie prime, di cui abbiamo esempi nelle città di tutto il mondo, compresa l’Italia. Oggi ci troviamo in una situazione in cui c’è una pseudo-cultura della conservazione, in cui viene usata una certa valutazione dell’impatto ambientale. È un concetto anglosassone che viene considerato in ogni fase del progetto. E viene considerata la questione ambientale come sono considerate le questioni tecniche, quelle occupazionali e quelle sanitarie. Prima si fa un programma, poi un piano, poi un progetto, uno studio di fattibilità, preliminare, definitivo, esecutivo. Il professionista o il gruppo di professionisti, di scienziati che fanno queste opere, che progettano, prima hanno delle idee e poi portano a compimento il progetto, ma è sempre presente quest’aspetto dell’impatto ambientale. Anziché essere scisso, portato fuori dal progetto, viene addirittura considerato un elemento che consente di decidere se un’opera si fa o non si fa. Come se fosse qualcosa di esterno alla scelta che invece bisogna fare. Questo è avvenuto in modo evidente nel nostro paese e sta influenzando parte degli altri paesi europei, esclusi gli anglosassoni, che hanno capito. Noi abbiamo il Ministero dell’Ambiente con portafoglio, l’unico Ministero dell’Ambiente in Europa e nel mondo con portafoglio. C’è una direzione generale, c’è un EPA e un’agenzia che dà i parametri, che dà le indicazioni, poi ci sono le agenzie regionali, quelle statali negli Stati Uniti. Abbiamo copiato anche le agenzie, ma in più abbiamo il Ministero con portafoglio, perché decide la gestione degli impianti di depurazione, la gestione dei parchi, ha i fondi, ha le Direzioni Generali. Perché questo? Per una situazione che si è creata nel nostro paese e che si stava creando in Germania. Per di più è l’unico Ministero non decentrato, tutto si decide a Roma. E in fondo anche quello dei Beni culturali ha seguito una stessa sorte per una presenza politica di un certo tipo al suo interno. Ed è rimasto tale anche dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, quella riforma che dà potere alle Regioni, e quindi alle Province e ai Comuni. Nei lavori pubblici, la parte ambientale è riservata al centro, ed è scissa da ogni altra: può legiferare solo il centro, ovvero lo Stato, che sempre dipende da quella stessa situazione politica. Questo va assolutamente eliminato, bisognerebbe votare la devolution solo per questo, perché rimetterebbe a posto le cose per cercare di cambiarle. Un altro esempio d’inceppamento riguarda le vie di comunicazione. Nel 1975 c’è stata una legge in Italia che ha vietato le autostrade! In Italia avevamo nel ’75 il sistema automobilistico stradale migliore d’Europa, dopo la Germania. Avevamo cominciato l’alta velocità prima di tutti con la Firenze-Roma: la direttissima. Poi la Francia ci ha superato, facendo il sistema autostradale con il Belgio e l’Olanda più moderno d’Europa, insieme alla Germania, mentre noi siamo rimasti fermi. Da qui, la frattura fra le due Italie, per esempio, e l’ingolfamento di alcune zone del Nord, il blocco del traffico sugli Appennini. Le stesse Alpi non sono state perforate come occorreva: prima erano un baluardo per la difesa, adesso però sono diventate un ostacolo! Perché l’Europa non abbia il centro solo a Berlino, occorrerebbe un’Europa euromediterranea, con il suo centro in Italia, in modo tale che gli europei si accorgano che i paesi del Mediterraneo esistono. Dunque, queste strozzature – le Alpi, l’Appennino tosco-emiliano e lo stretto di Messina – devono essere eliminate. E poi Malpensa è un aeroporto secondario, un’appendice tra gli aeroporti del centro Europa. Occorre un aeroporto in Sicilia o nella zona del Tavoliere delle Puglie che serva 400 milioni di persone, non un aeroporto che viene considerato dagli olandesi un aeroporto secondario. L’aeroporto del 2020 non è né Fiumicino né Malpensa. Ci vuole un aeroporto di quel tipo, che fornisca appoggio a tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Le leggi italiane adesso si stanno sbloccando, negli ultimi due anni c’è stato un cambiamento di rotta delle forze politiche, si sono accorte che era finito il tempo di chiudersi in se stessi, bisognava uscire dal guscio: fare, realizzare le grandi opere. Questo cambiamento si esprime anche in un tentativo di fare una nuova legge sulle grandi opere, di smantellare quell’obbrobrio di legge che è la Merloni, basata sulla sfiducia verso la Pubblica Amministrazione. La Merloni ha aumentato enormemente i lacci e quindi non permette la realizzazione né delle grandi né delle medie né delle piccole opere pubbliche. E allora le Regioni, fortunatamente col decentramento, possono legiferare e stanno legiferando per superare la legge Merloni. Lo Stato deve legiferare. Naturalmente, siamo indietro nel senso che la nostra mentalità, la cultura, non è pronta a fare un passo di questo genere. Per ritornare a essere competitivi dobbiamo determinare le direttive europee e poi accoglierle senza cambiarle, automaticamente accettarle. Ecco la via che bisogna seguire. Noi siamo capaci invece di non lavorare secondo una direttiva europea allo scopo di farci entrare le nostre idee. Diciamo: vogliamo subito recepirla. Andiamo a fare una legge di recepimento e ci mettiamo un’altra legge dentro, per cui la direttiva europea viene stravolta completamente. La Merloni ha trenta procedimenti d’infrazione. Il decreto n° 22 di Ronchi ne ha quindici. Nel nostro paese cerchiamo sempre di fare qualche standard più rigoroso degli altri, in modo tale che non si possa assolutamente seguire, poi lo aggiriamo e, insomma, nessuno lo attua. E quindi lavoro nero, non sicurezza, eccetera. Dobbiamo fare un salto di civiltà in questo senso. Ecco perché è necessario che queste problematiche vengano discusse, che siano conosciute dai giovani, che abbiamo amministratori nuovi. Il mio libro vorrebbe proprio questo. Ma certamente non è realistico, è utopia e speranza.