GAPE DUE FRA I PROTAGONISTI DELLA "FORMATURA" CERAMICA

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presidente di Gape Due Spa, Sassuolo (MO)

Il distretto ceramico più avanzato del pianeta, quello di Sassuolo, deve molto al contributo dei fornitori che, come Gape Due, da oltre mezzo secolo si adoperano per mettere al servizio della produzione di piastrelle e delle tendenze moda le tecnologie più moderne, lungo un processo di ricerca e innovazione costante. Se al loro sorgere le fabbriche del comprensorio avevano l’officina interna, alla fine degli anni quaranta incominciarono a rivolgersi a officine specializzate nella costruzione di stampi, che da semplici componenti meccanici divennero presto protagonisti della “formatura” ceramica. Ammirando la bellezza, l’eleganza e la varietà delle matrici degli stampi che avete prodotto per i vostri clienti in cinquant’anni, si potrebbe ripercorrere la storia dello stile nell’architettura per interni ed esterni e quindi il modo in cui è cambiata l’immagine degli ambienti in cui viviamo e lavoriamo. Il vostro è un patrimonio non soltanto industriale, ma anche artistico e culturale, da cui hanno preso vita le piastrelle di molti grandi marchi della ceramica italiana e di altri paesi…
Noi siamo come i sarti: costruiamo ciascuno stampo su misura, in base all’impasto, al tipo di pressa che viene utilizzato e a tanti altri fattori. Grazie a un’interlocuzione costante fra i reparti produttivi e l’ingegnerizzazione, la progettazione tiene conto di tutte le caratteristiche che deve avere ciascuno stampo, in modo da garantire ai clienti flessibilità e affidabilità. Il nostro distretto offre l’eccellenza della meccanica mondiale, non soltanto alle fabbriche italiane, ma anche a quelle della maggior parte dei paesi produttori. Di recente, abbiamo incominciato a lavorare con la Russia e non è stato facile far capire il nostro modo di lavorare e di ottenere la qualità. Tuttavia, dopo il primo ordine da parte di un’azienda russa, grazie al passaparola, stiamo ricevendo richieste anche da molte altre che, addirittura, ci mandano i loro stampi da rigenerare, nonostante siano presenti due officine locali, che però non garantiscono la nostra stessa qualità.
Nell’intervista precedente, lei aveva raccontato la storia dell’azienda fino all’avvio dell’espansione internazionale, alla quale aveva contribuito la vostra agente, Cristina Pennacchioni, arrivata da voi nel 1985. Mentre i risultati all’estero non si facevano attendere, che cosa aveva in serbo il 1986 per l’avvenire fra le quattro mura dell’azienda?
Con il mio ex socio, Domenico Pellacani, non andavamo più d’accordo da quasi cinque anni, ma cercavamo di mantenere un clima mite per non compromettere la gestione dell’attività. Mi faceva capire in tutti i modi che avrebbe voluto tenere l’azienda tutta per sé e intanto, come capii dopo, stava accordandosi con il capo officina e con il responsabile dell’amministrazione per rilevarla. La situazione era diventata insostenibile, perché stavamo mettendo a rischio il proseguimento. Un giorno, un mio amico, che era capo fabbrica in una ceramica a Castellarano, mi chiamò per chiedermi spiegazioni: “Come mai il vostro capo officina dice che non volete più lavorare per noi? Eppure, abbiamo sempre onorato i nostri pagamenti”. Da lì capii quello che stava accadendo: il mio socio stava cercando di far perdere valore all’azienda, in modo da acquisire il restante 50 per cento a un prezzo stracciato. Così, andai in officina e chiesi a due operai di venire con me nella fabbrica dove lavorava il mio amico di Castellarano, al quale chiesi di ripetere quello che mi aveva detto al telefono. “Avete sentito cosa ha detto? – chiesi ai due operai – Che io non voglio più lavorare con loro”. Di ritorno in azienda, chiamai il capo officina e lo licenziai in tronco. Purtroppo, però, il mio ex socio aveva i miei stessi poteri e lo riassunse, per cui a me toccò licenziarlo di nuovo il giorno dopo. Quella faccenda si concluse così, ma ormai eravamo al limite, era stata l’ultima goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Considerando che nessuno dei due voleva vendere all’altro, decidemmo di stabilire una vera e propria asta, con busta chiusa. Dopo aver convocato entrambi un commercialista e un avvocato, c’incontrammo nell’ufficio di un commercialista terzo: chi avrebbe offerto di più avrebbe avuto diritto all’acquisto dell’altra metà dell’azienda. Forse sono stato fortunato o forse, frequentando il mio socio da più di vent’anni, sapevo che diceva il contrario di ciò che pensava di fare. I giorni precedenti l’asta, diceva agli impiegati che non avrebbe offerto una grossa cifra perché ormai non aveva molto interesse per l’azienda, che, all’epoca, era stata valutata da 800 milioni a un miliardo di lire. Dovevamo inserire nella busta una cifra corrispondente al 15 per cento del valore che offrivamo. Il mio socio sapeva che io non avevo i soldi necessari per acquistare la sua quota, ma non sapeva che avevo le amicizie giuste, quelle che a volte si rivelano più importanti dei soldi.
Nella precedente intervista, lei ha raccontato che fino al 1985 le amicizie sono state preziose…
Anche in questo caso, due settimane prima di andare all’asta, un mio amico imprenditore edile miliardario, con cui spesso giocavo a tennis, mi accompagnò alla Banca Popolare dell’Emilia Romagna e mi presentò al direttore generale, che tra l’altro frequentava lo stesso club tennistico. Il mio amico imprenditore, presentandomi, disse: “Michele ha bisogno di tanti soldi, se non dovesse riuscire a restituirli, compro la sua casa e ve li restituisco io”. Il direttore rispose che mi aveva visto al club e aveva capito che ero una persona affidabile, pertanto, nell’arco di mezz’ora, mi aprì un conto corrente, con la possibilità di emettere assegni per un importo molto elevato. È stato un piccolo grande miracolo d’altri tempi, quando la parola era sacra e la fiducia non si basava sui parametri di Basilea 1, 2 e 3 per la valutazione di un investimento e della solvibilità di un’impresa.
Il giorno dell’asta, al momento di aprire le buste, eravamo nella sala riunioni intorno a un tavolo molto grande. Non so perché, mi sedetti a capotavola e Pellacani, convinto che l’azienda fosse già sua, si mise dalla parte opposta del tavolo. Stava in piedi, sostenuto dalla certezza di vincere. Io da seduto lo guardavo e osservavo la situazione. La sua busta fu aperta per prima e, quando l’avvocato annunciò l’importo, sapevo già di aver vinto perché avevo messo nella busta 70 milioni in più della loro offerta. Quando venne aperta la mia busta, il mio ex socio divenne rosso paonazzo, viola, di tutti i colori. Stava per svenire. Io lo guardavo, assaporando per la prima volta in tanti anni, finalmente, una grande rivincita. Quando il commercialista dichiarò che l’azienda apparteneva alla mia famiglia, strinsi la mano al mio socio e salutai ciascuno dei presenti prima di uscire dalla sala. Ma il commercialista che seguiva all’epoca la nostra azienda teneva le parti di Pellacani e mi rincorse fuori dalla sala per dirmi: “A offrir tanti soldi per un’azienda così ci vuole proprio un idiota!”. Testuali parole. “Lei pensi pure quello che vuole – risposi –, tanto i nostri rapporti lavorativi finiscono qui”.
Anche se mi dispiace raccontarlo, avevo impiegato gli ultimi cinque anni a porre rimedio agli errori che il mio ex socio commetteva appositamente per abbassare il valore dell’azienda in modo da comprarla a due lire. Così, quando mi ritrovai da solo, subito ero spaesato e impaurito, ma dopo poco tempo fu come spiccare il volo. Per di più, ci fu un altro miracolo: finì la crisi che aveva colpito l’edilizia e, di conseguenza, il settore della ceramica, e iniziò un periodo di boom. Quindi tornammo a lavorare a pieno regime e, proprio in quel periodo, iniziammo a sviluppare altri mercati, come l’Olanda e la Polonia.
Quando il capo officina venne licenziato, fu difficile rimpiazzarlo?
No, assolutamente, perché sono sempre stato propenso a insegnare ai giovani il mestiere. All’epoca c’era un bravo autista, un ragazzo di grande talento che apprendeva molto velocemente. Così, lo addestrai in poco tempo e si rivelò presto un tecnico eccellente. Tra l’altro, sono stato il primo nel mio settore a istruire un tecnico commerciale che visitasse le aziende ceramiche. Nelle altre officine era il titolare a svolgere questa funzione. L’azienda si è sviluppata anche perché non ho mai pensato che l’imprenditore dovesse essere l’unico esperto, anzi, per la riuscita dell’impresa occorre coinvolgere collaboratori che vadano oltre le competenze dell’imprenditore. E poi, siccome nessuno è eterno, occorre fare in modo che l’azienda possa andare avanti anche quando il fondatore non ci sarà più. Per fortuna, dopo cinquant’anni, non è il nostro caso.
Il volo che avete spiccato dopo il 1986 riguardava sia il mercato estero sia la spinta verso l’innovazione? È iniziata lì?
No, l’impulso verso l’innovazione, che prosegue tuttora, è iniziato nei primi anni novanta, quando abbiamo avviato la progettazione di nuovi stampi “a trasferimento”. Sono stati anni irripetibili: un’innovazione e una ricerca incessanti, che solo chi l’ha vissuta può capire. È stato un miglioramento costante e crescente a tutti i livelli sia per l’indotto sia per le industrie ceramiche.
Allora, nella prossima intervista andremo nei dettagli di queste innovazioni.