IL CONTESTO CULTURALE E ARTISTICO COME PATRIMONIO DELL’IMPRESA

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente di Exellence: consulenza internazionale, Modena

Nella sua esperienza di consulenza internazionale alle imprese – prima con CNA e con EG Group, poi con lo Studio Gavioli e con Exellence, di cui è fondatore e presidente –, lei dà un contributo alla valorizzazione non soltanto del patrimonio tecnico delle piccole e medie imprese che introduce nei mercati esteri, ma anche del patrimonio culturale e artistico del nostro paese. In che modo?
Un’impresa che punta alla valorizzazione dei propri prodotti o servizi deve innanzitutto comunicare, e farlo in modo professionale, cercando di trasmettere il più possibile ciò che li rende unici, anche se non è facile: spesso alla base del valore aggiunto c’è la storia di intere generazioni, che si sono tramandate insegnamenti, a volte in modo inconsapevole, che oggi consentono a quel prodotto o servizio di distinguersi nettamente rispetto ad altri sul mercato. Le aziende del nostro paese dovrebbero comunicare, oltre alla propria storia, il contesto culturale, artistico e scientifico nel quale operano, quindi veicolare con immagini e testi efficaci il patrimonio della loro città. Di recente, presentando a uno dei più importanti studi di architettura di Shanghai un’azienda modenese che realizza decori artistici, mi sono avvalso di bellissime immagini di Modena e provincia – il Duomo, i portici della via Emilia, la Ferrari, la Maserati –, ma anche di immagini che si riferivano al belcanto e alle eccellenze enogastronomiche, considerando che abbiamo uno degli chef più quotati al mondo. Certo, potrebbe sembrare riduttivo confrontare una semplice strada come la via Emilia con le diciassette linee della metropolitana di Shanghai, eppure, soprattutto quando si tratta di prodotti che devono stimolare la curiosità degli architetti, il paragone non può basarsi sulle dimensioni delle cose, ma sull’arte e sulla loro storia che le costituisce.
Le imprese italiane devono tenerne conto, perché non possono credere di dover competere con i numeri, dove vinceranno sempre i giganti e i colossi. Anche quando, qualche anno fa, siamo andati in Turchia con alcune imprese aderenti a EG Group, sembrava impossibile proporre qualcosa che i turchi non avessero già, perché oggi non hanno nulla da invidiare a una moderna organizzazione economica. Eppure, non possiamo dimenticare che il loro processo di industrializzazione è incominciato in tempi molto recenti e questo, che per loro è un gap, per noi è un vantaggio competitivo: quello di riuscire a fornire prodotti e servizi con una personalizzazione e un contenuto culturale che ci invidiano anche i paesi più avanzati come la Germania e gli Stati Uniti.
In che modo si può comunicare la particolarità del prodotto italiano?
Non è facile, però bisogna tenere conto del fatto che i clienti dei paesi orientali, per esempio, mentre dai tedeschi pretendono la tanto vantata precisione nel funzionamento del prodotto realizzato in serie, a noi chiedono il prodotto su misura, quello che soltanto l’ingegno italico può riuscire a escogitare. Comunicare questa genialità non è automatico, non basta dire di essere italiani per trovare accoglienza da parte di un nuovo cliente all’estero. Chi ha fondato la propria azienda quaranta o cinquant’anni fa riesce a trasmettere tutto il proprio entusiasmo al cliente, anche nei casi in cui nessuno dei due parla la lingua dell’altro e nessuno dei due parla inglese. Tra parentesi, ricordo aneddoti divertenti in cui l’interprete diveniva talmente superflua che si metteva a parlare con me, mentre i due imprenditori concludevano l’affare comunicando a gesti e con l’aiuto di disegni tecnici. Alcune volte, invece, sorge un problema quando le nuove generazioni hanno un’impostazione troppo manageriale, anziché un approccio in cui il servizio al cliente ha la massima priorità, a prescindere dai sacrifici che comporta; non hanno affrontato le stesse difficoltà dei fondatori e purtroppo, spesso, vengono loro risparmiate. Se i figli sono usciti dall’università con l’illusione di prendere in mano l’azienda del padre senza grandi sforzi, hanno molti più problemi. Se invece, come avviene in alcuni casi, prima di pretendere di assumere una funzione di comando, fanno la cosiddetta gavetta, lavorando in tutti i reparti – dal magazzino alla produzione all’amministrazione –, allora, acquisiscono gli elementi essenziali per divenire imprenditori.
In che modo le piccole e medie imprese della meccanica aderenti a EG Group hanno tratto vantaggio dalla loro dimensione, anziché esserne penalizzate?
C’è più di un modo per superare la falsa opposizione fra piccole e medie imprese, da una parte, e grandi industrie multinazionali, dall’altra: oltre ai consorzi e alle reti d’imprese, i cosiddetti distretti industriali consentono a un territorio costituito da piccole e medie imprese di organizzarsi come se ciascuna piccola azienda fosse un reparto di una grande multinazionale. Un distretto è come un grande gruppo industriale che, anziché lavorare con i grandi numeri in un unico capannone, è distribuito su varie aziende del territorio. Forse, però, per superare completamente il gap con la grande impresa, la piccola deve dotarsi di alcuni strumenti della cultura manageriale e mettere in discussione quegli stereotipi che sono un retaggio della gestione padronale. Questo vuol dire che l’imprenditore non può più accontentarsi del proprio “fiuto”, soprattutto all’estero, ma deve affidarsi a consulenti esperti nelle materie che sono chiamate in causa nelle varie attività dell’impresa: marketing, diritto internazionale, proprietà intellettuale, e così via.
Per i paesi di lingua araba lei non è soltanto un esperto, considerando la sua storia…
Mi ritengo fortunato per avere avuto la possibilità di vivere esperienze molto intense accanto a mio padre, che ha lavorato per tanti anni come diplomatico in Egitto e poi in Albania, in momenti caldi della politica di questi paesi, soprattutto perché così, oltre a imparare la lingua, ho ricevuto una formazione che mi consente di affrontare difficoltà impensabili se fossi rimasto sempre in Italia. E poi ho imparato a conoscere aspetti della cultura di quei paesi che oggi mi consentono di divenire interlocutore per gli imprenditori che decidono di approdare in quei mercati.
Quali sono i prodotti italiani più apprezzati nei paesi di lingua araba?
Oltre alle auto di lusso, i gioielli e l’abbigliamento, settori in cui l’Italia e la sua cultura non hanno rivali. Ma io non mi stancherò mai di suggerire agli imprenditori che si rivolgono ai paesi arabi di tenere conto della cultura dei loro clienti, di acquisirla e di prepararsi, prima di partire, il più possibile sui costumi differenti che incontreranno. Ignorarli potrebbe provocare incidenti diplomatici poco piacevoli: ricordo l’aneddoto di un cliente di un’imprenditrice, un re, proprietario di un ospedale, che aveva addirittura mandato una persona della sua corte per istruire l’ospite sull’abbigliamento da utilizzare nell’incontro che sarebbe avvenuto il giorno successivo. Poiché l’imprenditrice non si era attenuta alle istruzioni, temendo il caldo, che lì è sempre impietoso, abbiamo rischiato che l’incontro fosse annullato, se non avessimo rimediato velocemente con una mise più consona.
Parlando di abbigliamento, vorrei suggerire ai nostri imprenditori di entrare in partnership con una stilista araba, perché negli Emirati Arabi Uniti la cultura sta cambiando e le signore hanno bisogno di un prodotto che non sia la classica tunica, amano truccarsi, essere eleganti e alla moda. Collaborare con una stilista araba potrebbe permettere agli imprenditori della moda di aprirsi la strada in un mercato in forte crescita, anche se magari dovrebbero trovare un punto d’incontro fra il proprio stile e quello della stilista araba.
L’incontro che procede dall’apertura porta sempre risultati interessanti…
A proposito di apertura, abbiamo ascoltato di recente la notizia che la moschea di Abu Dhabi, dedicata allo sceicco Mohammad bin Zayed, padre dell’attuale principe, ora è stata denominata “Maria, madre di Gesù”. Il principe ha comunicato che “il cambiamento del nome non è fine a se stesso, ma che è una proiezione dei molti punti in comune tra cristianesimo e islam” e vuole mandare il messaggio che può esistere “una società in cui tutte le appartenenze religiose si incontrano, senza rigidismi”. È un segnale forte, all’insegna dell’incontro fra comunità religiose, per dire che non possiamo più vivere di conflitti e attentati.