LA META E L’APPRODO DELL’IMPRENDITORE

Qualifiche dell'autore: 
dirigente di struttura sanitaria, membro del direttivo dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Non è mai facile definire una professione, un’attività, un’arte.
Tanto meno chi la esercita. In molti casi il tentativo di definizione risente della cultura, dell’epoca, del contesto in cui essa viene formulata. Questa riflessione vale particolarmente per l’impresa e per l’imprenditore. È difficile uscire dal cliché, di secolare ispirazione letteraria, che attribuisce all’imprenditore la ricchezza, il successo, la rilevanza sociale, la fortuna, quando non la spregiudicatezza accompagnata all’audacia. La figura dell’imprenditore compare nel Rinascimento, anche come imprenditore d’arme, e si afferma nel Settecento, soprattutto in Gran Bretagna, come undertaker, colui che prende su di sé la responsabilità di esecuzione di un lavoro svolto con il concorso di più persone, e nell’Ottocento assume la rilevanza sociale che ancora le riconosciamo, come figura produttrice di ricchezza e di occasioni di lavoro. La storia economica ci ha insegnato come l’imprenditore, il capitalista e il produttore di beni, ossia l’industriale, non siano esaustivi l’uno dell’altro, pur potendo comprendere caratteristiche di ciascuno di questi.
Non esiste un canone imprenditoriale tramandabile con lo studium, sebbene esistano, oggi, infiniti scritti e corsi di supporto che pretendono di definirlo.
Mi sono sempre interrogato su cos’altro questo significante abbia compreso e comprenda.
Mesi fa, mentre mi trovavo a Macerata per lavoro, mi è capitato di leggere un libro di storia locale dedicato a un importante imprenditore marchigiano: si trattava di un mio bisnonno, Anastasio Marchetti, di cui avevo sentito parlare tante volte in termini molto lusinghieri, ma non avrei mai immaginato quanto era esposto nel libro e nel convegno che ne è seguito. Il suo itinerario di vita e d’imprenditore ha compreso ciascuna delle definizioni sopra riportate, e molto altro. Dopo la morte del padre, piccolo commerciante di legname di Amandola, un paese della montagna ascolana, avrebbe potuto proseguirne l’attività, ma, con la madre e il fratello minore, nel 1853, a 17 anni, “discese” a Macerata dove aprì un negozio di materiali per la casa, impiegando madre e fratello.
Secondo le testimonianze narrate nel libro, fin dall’inizio ebbe tutte le qualità per divenire imprenditore.
A ventun anni aprì, con una ventina di operai, una fabbrica di fiammiferi, che divenne quasi subito una delle più importanti dell’Italia centrale.
Nell’Archivio di Stato di Macerata è conservata la vasta documentazione e le richieste di permesso per aprire l’attività, in uno Stato, come quello pontificio, estremamente burocratico e misoneista riguardo alla modernità.
Benché giovanissimo, fu subito un perfetto undertaker, conducendo in prima persona tutte le trattative commerciali e assumendo altri cento operai.
L’Unità d’Italia portò, com’è noto, uno stravolgimento nelle economie a Sud della Val Padana. Moltissime attività chiusero, ma Anastasio, non ancora trentenne, intuì che chi si ritirava, chi “tirava i remi in barca”, non avrebbe più potuto riprendersi.
Compiendo un grande investimento, comprò un’area della collina maceratese ed edificò un vasto stabilimento, dove impiantò la produzione di fiammiferi e di altro materiale da illuminazione, di materiale ligneo da costruzione e, soprattutto, una fornace per laterizi con oltre 300 addetti e con oltre 1.200.000 mattoni prodotti all’anno. Costruì una serie di piccole abitazioni per gli operai. Fondò, insieme ad altri imprenditori, la Camera di Commercio di Macerata e affrontò, con simpatie repubblicane, alcune sfide della politica. Quando si accorse che le fabbriche di laterizi del Nord, con l’introduzione della tecnologia tedesca “Hoffmann”, producevano più mattoni in tempi più brevi e a costi minori, e che i marchigiani iniziavano a rifornirsi nelle fornaci emiliane con questa tecnologia, Anastasio, strategicamente, circoscrisse, produttivamente e commercialmente, l’attività della sua industria per consentirne il proseguimento. Ma la sua forte pulsione e il suo spirito imprenditoriale trovarono un altro terreno nell’impresa dello spettacolo: costruì sul suolo acquistato un teatro politeama per diversi tipi di spettacolo e, anche in questo caso, l’impresa ebbe un grande successo.
Alla sua morte, in prossimità della prima guerra mondiale, il figlio Bruno, suo erede e già valentissimo chirurgo, vendette le attività e gli edifici tranne uno, che trasformò in una casa di cura che tuttora prosegue e dove anch’io mi trovo a lavorare, ma sempre lungo la traccia imprenditoriale di Anastasio.
Intendo questo scritto come un’intervista “impossibile” a un mio antenato imprenditore, come un apologo non apologetico e non idealistico di ciò che può esprimere una figura imprenditoriale, con l’audacia, la strategia, l’investimento e l’innovazione, attenendosi al tempo con talento. La riuscita dell’impresa non è preventivamente conosciuta e finalizzata e ha dinanzi a sé, come nota la cifrematica, l’avvenire e la qualità, lungo un viaggio senza ritorno. Come ha scritto di recente Sergio Dalla Val, “l’approdo non si conosce e non si vuole, ma nessuna meta può evitarlo” (“La città del secondo rinascimento”, n. 86, dicembre 2019).