SUI POSSIBILI INTRECCI TRA L’URSS E COSA NOSTRA

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giornalista, scrittore, vicedirettore di “Panorama”

Quando Francesco Bigazzi mi chiese nel 2015 di collaborare, in maniera del tutto secondaria, al suo libro Il viaggio di Falcone a Mosca, ripresi a considerare le cronache tra la morte di Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992, e i mesi successivi, riguardanti l’inchiesta della Procura di Roma intorno all’oro di Mosca, in collegamento con Valentin Stepankov. Ma ebbi anche modo di verificare che, nel febbraio del 1991, Falcone era stato chiamato da Claudio Martelli, ministro della giustizia di allora, a guidare l’ufficio affari penali, che all’epoca era il cuore e il cervello del suo ministero. Era impossibile che Falcone conducesse personalmente un’inchiesta perché il suo ruolo glielo impediva, però era l’uomo che seguiva, anzi guidava, tutte le rogatorie internazionali, che passano inevitabilmente attraverso il ministero della giustizia italiano e del paese in cui devono proseguire l’iter.
Parlai con varie persone per cercare di ricostruire, a tanti anni di distanza, quale fosse stato il ruolo di Falcone nell’indagine che aveva Stepankov come contraltare russo per l’oro di Mosca e individuai quattro personaggi che confermarono un ruolo importante di Falcone in quella vicenda: Claudio Martelli, che ne parlò anche alla presentazione del libro Oro da Mosca, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti e Geronimo, cioè Paolo Cirino Pomicino.
La loro testimonianza e la coincidenza temporale della morte di Falcone nel 1992, quasi a metà strada tra il viaggio fatto da Stepankov in Italia, in cui incontrò Falcone, e la prossimità del viaggio di Falcone a Mosca, restano elementi estremamente suggestivi, che fanno pensare come l’attentato di Capaci possa avere avuto un qualche collegamento con quella data così imminente.
Poi sono andato a riprendere le cronache dei miei colleghi Franco Coppola per “la Repubblica” e Marco Nese per il “Corriere della Sera”, che quindici giorni dopo la morte di Falcone avevano seguito la missione della Procura di Roma in Russia per incontrare Stepankov e accedere ai famosi documenti da lui conservati.
La delegazione giudiziaria italiana era composta da Ugo Giudiceandrea, che era procuratore della repubblica, Franco Ionta, Luigi De Ficchy, che era un altro sostituto procuratore, e Francesco Nitto Palma, con il quale parlai e che sarebbe divenuto una dozzina di anni dopo ministro della giustizia per il governo di centro-destra. Le cronache di quei giorni, fra il 3 e il 6 giugno del 1992, sono impressionanti, perché i due giornalisti al seguito dei magistrati venivano informati passo passo di ciò che i magistrati raccoglievano, e ci sono nelle loro cronache riferimenti precisi su ciò che scoprivano i magistrati in quegli incontri.
Prima di tutto un’annotazione: i magistrati e i giornalisti erano accolti a Mosca e protetti come se una bomba fosse potuta esplodere sul loro convoglio da un momento all’altro, dunque con una cappa di protezione di per sé sconvolgente. Poi, Marco Nese sul “Corriere” scrisse, il giorno dopo, che le carte dei russi raccontavano non soltanto della violazione della legge sul finanziamento pubblico del Pci, ma anche di illeciti tributari e falsi in bilancio: si era scoperto che i soldi dei sovietici erano serviti al Pci per pagare la propaganda del referendum sull’aborto e di quello sul divorzio.
Ma, ancora di più, a un certo punto, Coppola su “Repubblica” raccontò: “I rubli che lasciavano l’Urss arrivavano anche alle cosche siciliane. Ecco perché, dicono (i magistrati italiani), se ne interessava anche Falcone. Insomma, consultando i documenti, gli inquirenti italiani sono inciampati in un filone che porta dritto a Cosa nostra. Per il quotidiano ‘Izvestija’, il traffico di rubli avrebbe per anni nascosto una lunga serie di operazioni mirate al riciclaggio di denaro sporco”.
Quindi, dai giornali dell’epoca emerge un diretto collegamento che triangola Falcone e la sua morte, il Pci, i soldi dall’Unione Sovietica e la mafia siciliana.
I giornali russi erano convinti che dietro la mano mafiosa, di bassa manovalanza, dell’attentato di Capaci ci fossero i loro servizi segreti. Era un sospetto molto insistente sui giornali russi dell’epoca. Allora cercai di parlare con i quattro magistrati che erano andati in Russia, ma ricevetti risposte quanto meno reticenti. Per esempio, Ionta, che nel frattempo era diventato procuratore aggiunto a Roma, mi chiese di formulare domande scritte, io gliene inviai una dozzina, ma lui replicò di non potermi rispondere su questa materia giudiziaria. Tra l’altro, Ionta negò che con Stepankov avessero parlato di Falcone. Questo mi parve obiettivamente strano, in quanto Falcone era morto da quattordici giorni e Stepankov era sicuramente molto interessato a discutere anche del tema della morte del suo collega, con il quale aveva avuto rapporti molto intensi.
Ricordo, tra l’altro, che anche Nino Di Matteo, magistrato antimafia, disse più volte che i computer di Falcone al ministero furono sabotati o manomessi dopo la sua morte. E anche questo è un elemento che accresce il mistero: non è una prova – i computer potevano essere stati manomessi per mille motivi –, ma l’insieme dei sospetti e delle coincidenze è così forte che mi piacerebbe che quei magistrati, se qualche cosa hanno saputo, ne dessero testimonianza.
Anche perché alle indagini, che sembravano così promettenti, non è seguito assolutamente nulla: nel momento in cui i quattro magistrati sono tornati a Roma, dalle cronache non si è saputo più nulla su quell’indagine.