L’INTELLIGENZA DEL LAVORO

Chi scrive i manuali di diritto del lavoro all’inizio si
sente in dovere di spiegare perché il rapporto di lavoro esige regole completamente
differenti da quelle generali dei contratti. Per quale motivo? Perché c’è una
strutturale mancanza di domanda di lavoro, uno squilibrio fra domanda e offerta
di lavoro che determina la posizione di debolezza di chi offre il lavoro; c’è
una situazione in cui la disoccupazione è endemica e il pericolo di restare
disoccupati induce il lavoratore a prendere tutto ciò che gli viene offerto,
senza fiatare e senza poter scegliere.
Questa è la spiegazione che viene prevalentemente fornita in
apertura dei manuali. Ma, in verità, le cose non stanno sempre esattamente così.
Alla fine del 2019, l’Agenzia nazionale delle politiche
attive al lavoro (ANPAL) e Unioncamere censivano in Italia 1,2 milioni di posti
di lavoro qualificato e specializzato che rimanevano permanentemente scoperti per
mancanza di persone disponibili a ricoprirli o in grado di ricoprirli.
Gli economisti del lavoro per lo più considerano che, al di
sotto del 5%, la disoccupazione sia un fatto fisiologico, non patologico. Ora,
la nostra disoccupazione a fine 2019 era del 9,8% e riguardava 2,4 milioni di
persone. Se avessimo saputo attivare i percorsi necessari per coprire quegli
1,2 milioni di posti di lavoro disponibili, la nostra disoccupazione si sarebbe
dimezzata, sarebbe scesa sotto il 5%. E quei posti sarebbero stati disponibili
senza bisogno di una lira d’incentivo, senza bisogno d’investimenti: non solo
non occorreva spesa pubblica per incentivarli, ma ci sarebbe stato maggior
gettito per l’Erario; sarebbe stata quindi un’operazione in puro guadagno.
Allora, incominciamo col dire che quello squilibrio fra
domanda e offerta di cui si parla nelle prime pagine di manuali del diritto del
lavoro non è affatto una maledizione divina da cui non ci si possa liberare: ciò
che realmente manca, nel nostro tessuto produttivo, prima che la domanda di
lavoro, sono i servizi al mercato del lavoro che consentano alla domanda di
trovare la sua offerta. Tant’è vero che l’OCSE propone un interessante
confronto tra i livelli del tasso di disoccupazione e l’efficienza dei servizi
al mercato del lavoro.
Quando le caratteristiche di domanda e offerta di lavoro non
corrispondono, si parla di mismatch.
Bene, i paesi che hanno i tassi più alti di disoccupazione
sono anche quelli che hanno il più alto tasso di mismatch, cioè di
non-corrispondenza tra ciò che viene chiesto dalle imprese e ciò che viene
offerto dalle persone in cerca di lavoro. Nel sito lavoce.info, possiamo
leggere due recenti articoli di economisti che dicono esattamente questo:
l’Italia brilla per l’inefficienza dei suoi servizi per l’impiego. Mancano sia
da un punto di vista qualitativo sia da un punto di vista quantitativo; e non può
che essere così in un paese in cui, in una crisi gravissima come quella che
stiamo attraversando, si spendono decine di miliardi di euro per le politiche passive
del lavoro, cioè per il puro e semplice sostegno al reddito di chi perde il
lavoro o di chi è sospeso dal lavoro – cosa doverosa, ovviamente – ma a fronte
di queste decine di miliardi non si spende un euro per le politiche attive,
cioè per costruire i percorsi più efficaci che portino le persone a potersi
candidare ai posti esistenti e quindi, in qualche misura, a poter scegliere tra
le occasioni esistenti.
La tesi del mio libro L’intelligenza del lavoro (Rizzoli)
è dunque questa: già oggi la metà professionalmente più robusta della forza
lavoro sceglie l’imprenditore. Le persone che vivono del proprio lavoro
scelgono l’impresa quando iniziano la propria carriera, decidendo se
indirizzarsi verso un settore o un altro, una fascia di professionalità
piuttosto che un’altra, verso la grande impresa piuttosto che la piccola; oppure,
insoddisfatti della domanda di lavoro espressa dal tessuto produttivo nella
loro zona, migrano verso altre zone: anche questo è scegliersi l’imprenditore.
Non solo, ma queste persone scelgono l’imprenditore anche più volte nel corso della
loro vita lavorativa. Le scienze sociali ci dicono che in questa metà della
forza lavoro, nel corso della vita lavorativa, il tasso di mobilità spontanea è
all’incirca lo stesso in Italia rispetto ai paesi scandinavi e agli Stati
Uniti. Queste persone cambiano lavoro spontaneamente perché scelgono un’altra
impresa capace di valorizzare meglio il loro lavoro.
Non c’è fonte di dignità del lavoro, di forza contrattuale,
di libertà effettiva del lavoratore migliore di quella che consiste nel
potersene andare da un’azienda dove non si è trattati abbastanza bene per
trasferirsi in un’altra dove si è trattati meglio. In altre parole: potere
sfruttare la concorrenza tra imprenditori.
Il problema è la metà professionalmente debole, che non
riesce a esercitare questa possibilità di scelta. Non riesce perché ha bisogno
di servizi: in paesi più civili del nostro, la persona che cerca lavoro –
perché lo ha perso o è insoddisfatta del proprio – ha a disposizione sportelli
unici nel centro delle città, i cosiddetti “one stop shop”, dove trova il job
advisor che le insegna a usare internet – una fonte molto importante di notizie
sul mercato del lavoro –, che traccia il profilo delle sue attitudini, delle
sue aspirazioni e, se nota un gap tra attitudini e aspirazioni, la mette in
guardia contro il rischio che ne deriva. Molto spesso, la disoccupazione giovanile
nasce dalla non corrispondenza fra l’aspirazione e le capacità effettive,
oppure dal fatto che manca qualcuno che fornisca informazioni essenziali,
ignorando le quali si entra in un vicolo cieco da cui difficilmente si riesce a
uscire da soli. Ecco, questo fanno i job advisor nei paesi più avanzati:
persone che, per imparare a fare quel mestiere, si sono fatte dai due ai tre
anni di formazione specialistica post-laurea.
Da noi si è preteso di affidare questo compito a qualche
migliaio di persone totalmente prive di esperienza e di capacità specifiche, i
cosiddetti navigator, ai quali è stato offerto soltanto un corso di
venti giorni sui temi del mercato del lavoro. Per di più, non abbiamo un
management in condizioni di organizzare un servizio di questo genere, di
stabilirne gli strumenti, le modalità e i controlli di produttività.
Insomma, la debolezza del lavoratore non nasce da una
maledizione divina, ma da una mancanza di questi servizi: chi ha perso il
lavoro in un’azienda decotta, che comunque non avrebbe potuto offrirglielo più a
lungo, in Italia non sa come fare e si reca dal sindaco o dal parroco o dal
politico di turno per una raccomandazione.
Questo è l’effetto della mancanza di veri servizi per il lavoro:
gli one stop shop e i job advisor competenti a disposizione di
tutti, in Italia, non ci sono.
A questo proposito mi chiedo: perché il sindacato in Italia
di queste cose non si occupa? Avete mai sentito parlare di uno sciopero – anche
simbolico, di soli dieci minuti – per il buon funzionamento dei servizi del
mercato del lavoro? La formazione professionale dovrebbe essere mirata
prioritariamente ai posti permanentemente scoperti e organizzata in
collaborazione con le imprese che cercano e non trovano. Ma questo implica che
si controlli la qualità della formazione professionale e si finanzi solo quella
che produce l’effetto atteso. Quindi che si organizzi un monitoraggio permanente,
capillare, che consenta di rilevare il tasso di coerenza tra formazione
impartita e sbocchi occupazionali effettivi: questo fanno i paesi dove le cose funzionano.
E in quei paesi i job advisor possono fare il loro mestiere perché
dispongono di questo dato.
Ma non in Italia: l’anagrafe della formazione, l’incrocio
dei suoi dati con i dati delle comunicazioni obbligatorie, delle iscrizioni
agli albi professionali, delle iscrizioni alle liste di disoccupazione – che è
quello che consente di rilevare, appunto, il tasso di coerenza – da noi non si fa.
La regola, da noi, è che il sistema della formazione professionale funziona
avendo al centro l’interesse degli addetti, non quello degli utenti. Si tiene
in piedi un corso per non licenziare i formatori, non perché è utile per dare
la possibilità ai cittadini di scegliersi il lavoro, per consentire alle
persone che vivono del proprio lavoro di uscire dalla loro condizione di
inferiorità nei confronti delle imprese.
Il titolo del mio libro, L’intelligenza del lavoro –
intelligenza vuol dire “saper leggere dentro una cosa” – allude al saper
leggere il mercato del lavoro, saperne capire i meccanismi, che cosa offre, con
quali strumenti e quali percorsi. Alcuni dispongono in qualche misura di questa
intelligenza perché sono inseriti in reti parentali, professionali, amicali che
forniscono loro informazioni e contatti utili; altri no. La debolezza della parte
più svantaggiata della forzalavoro nasce dalla mancanza di questa capacità di
leggere e usare il mercato del lavoro, dalla mancanza di corsi di formazione
mirati agli sbocchi effettivamente esistenti, che consentano di aumentare le
proprie possibilità di scelta.
Pensate ai rider: un rider che vuole smettere di fare
il rider dovrebbe potere andare allo one stop shop e dire: “Io voglio
smettere di fare soltanto quello che sa pedalare e rispondere al telefonino.
Voglio qualcosa di più. Cosa mi offre il mercato?”. Il job advisor gli
chiederebbe: “Cos’hai fatto finora? Guarda, adatte a te, raggiungibili in tre
mesi ci sono queste possibilità, in sei mesi queste altre, in dodici mesi
queste altre. E siamo pronti a sostenere il tuo reddito durante il periodo
necessario per questa transizione”.
In Italia mancano – anche oggi, nel pieno di una crisi
economica spaventosa – infermieri, operatori sanitari, panificatori, macellai,
sarti, tecnici informatici, addetti ai servizi alle famiglie e alle comunità
locali.
In Italia ogni anno chiudono 20.000 imprese artigiane per
raggiunti limiti di età del titolare, senza che vengano trasmessi alle nuove
generazioni né il know-how professionale né l’avviamento commerciale.
Chi informa i nostri giovani di tutto questo? La protezione efficace dei rider va
realizzata non con regole che rendono di fatto impossibile il loro lavoro
attuale, ma consentendo loro di investire sulla propria transizione verso
lavori di maggiore contenuto professionale.
In Italia, come in tanti altri paesi nostri partner, è
possibile un sistema di protezione del lavoro non basato sulla capitis
deminutio, come dicono i giuristi, cioè sulla privazione della capacità di
agire giuridicamente, ma sull’empowerment, sul mettere a disposizione
delle persone, soprattutto di quelle più deboli, gli strumenti per allargare la
loro capacità effettiva di scegliere nel mercato del lavoro. Cosa c’è di meglio
della possibilità di scegliere fra vari corsi di formazione con tassi di
coerenza alti e con un’indennità di formazione che ti consenta di fare
quell’investimento? I soldi ci sarebbero: spendiamo miliardi in formazione,
molto spesso male; e ne avremmo a disposizione anche molti di più di quelli che
spendiamo. La mia convinta opinione è che le sorti dell’emancipazione del
lavoro passino non attraverso una riduzione della libertà effettiva di scelta
delle persone nel mercato del lavoro, ma attraverso un suo ampliamento.