IL PATTO FRA LAVORO, INDUSTRIA E CITTÀ È DA RIFORMARE COMPLETAMENTE
Proprio nel momento in cui l’economia si sta risollevando dalla crisi innescata dall’emergenza sanitaria, le imprese non trovano lavoratori. Per aprire un dibattito intorno a tale questione, dedichiamo questo numero al tema Il lavoro, l’industria, la città. Che cosa può dirci in proposito, anche in qualità di presidente di Alpi e di Eurolab, rispettivamente, l’associazione nazionale e quella europea dei laboratori di testing?
Il lavoro, l’industria e la città sono inscindibili fra loro, anche se non sempre le politiche della città, di chi governa la città, la regione, la nazione, tende a favorire questa osmosi tra la città, l’impresa e i lavoratori. Nelle politiche attive per il lavoro, si trascinano problematiche che risalgono agli anni sessanta e settanta e ben si possono riassumere nella raccomandazione che i genitori facevano ai figli: “Stai attento: se non studi, ti tocca andare a lavorare”. Una frase che fotografa la mentalità dell’epoca, che metteva in alternativa studio e lavoro. Per fortuna, oggi, la maggior parte dei genitori ha capito che i figli devono studiare per poter lavorare. Gli uffici di collocamento però non sono cambiati, rimangono carrozzoni di nessuna utilità, così come permane la generale mancanza d’indirizzo. Perché, per esempio, in una società in cui è stato dimostrato dall’emergenza sanitaria che c’è una drammatica carenza di medici, mentre il numero degli avvocati in una singola città è pari a quello di tutta la Francia, le facoltà di medicina sono a numero chiuso mentre quelle di giurisprudenza non hanno barriere in ingresso? Manca proprio l’indirizzo, l’impegno a capire di quali professionalità ha bisogno la società. Per di più, di recente, c’è stato un fraintendimento gigantesco sullo scopo del “reddito di cittadinanza”. Possiamo anche essere d’accordo sull’utilità dell’intervento a sostegno delle fasce più deboli della popolazione, ma spacciare questo intervento come politica attiva per il lavoro è stata una barzelletta, come quella dei navigator: persone disoccupate che avrebbero dovuto trovare lavoro ad altri disoccupati.
Quindi, il patto fra lavoro, industria e città è da riformare completamente. Certo, le imprese devono fare la loro parte, ma a oggi sono state coinvolte solo marginalmente. Intanto hanno fondato gli ITS, istituti tecnici superiori, post-diploma, che offrono ai giovani percorsi formativi biennali altamente specializzati in base alla vocazione del territorio e alla richiesta di formazione delle aziende partner. Si potrebbe fare di più, per esempio, programmando meglio gli stage: attualmente, le aziende accolgono stagisti all’occorrenza, invece, si potrebbe istituire un tavolo di coordinamento con le università e capire quanti laureati si prevede escano dalle singole facoltà e in quali imprese potrebbero svolgere la loro esperienza formativa, se e quando necessaria.
Anche lo scollamento fra scuola superiore e impresa è un fattore critico nel mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro…
Pensiamo a un settore importante come il nostro, quello del testing, che include le ispezioni e le certificazioni: in Italia sono più di 2000 gli enti accreditati da Accredia, fra cui laboratori, organismi di certificazione e di ispezione; inoltre, ci sono quelli di derivazione pubblica, come le ASL. A questi corrispondono decine di migliaia di posti di lavoro che richiedono una specializzazione, la conoscenza delle normative nazionali e degli standard internazionali che sovrintendono alle valutazioni di conformità di beni e servizi. Ebbene, non c’è nessuna scuola, nessuna università che fornisca questa specializzazione. Eppure, il nostro è un mestiere importante, perché operiamo al servizio dell’innovazione e della sicurezza di beni, prodotti, servizi, ambiente e alimenti: concorriamo a una sostenibile qualità della vita.
C’è poi la questione della Pubblica Amministrazione (PA). In un recente intervento, Marcella Panucci (ex direttore generale di Confindustria e attuale capo gabinetto del ministro Renato Brunetta) ricordava che sono stati destinati 900 milioni di euro alla formazione della PA verso la digitalizzazione, ma il fatto è che, negli ultimi dieci anni, in seguito al blocco delle assunzioni, la PA ha perso il 33 per cento dei propri addetti: la conseguenza è che l’età media del dipendente pubblico è superiore ai cinquant’anni, cosa che non favorisce la predisposizione alla digitalizzazione e, d’altra parte, a oggi, non vedo le ragioni per le quali un giovane brillante ingegnere informatico dovrebbe essere attratto da un impiego nella PA. Ancora una volta, siamo di fronte alla mancanza d’indirizzo che, vista dalla parte dei giovani, significa mancanza di prospettive. E chi dovrebbe dare questo indirizzo, se non gli enti, i ministeri che sovrintendono all’istruzione, all’università e alla ricerca?
Occorrerebbe un tavolo di confronto tra chi sovrintende alla formazione e chi organizza il lavoro, quindi associazioni delle imprese, degli artigiani, dei liberi professionisti e anche della PA. Indirizzo non significa obbligo a scegliere, ma informazione sull’evoluzione del mondo del lavoro e quindi su presumibili opportunità offerte da un percorso piuttosto che da un altro. Altro che navigator, le politiche attive per il lavoro sono tutte da reinventare.