L’IMPEGNO E LE TECNOLOGIE COME INDICI DELLA RIUSCITA

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presidente di S.E.F.A. Holding Group Spa, Sala Bolognese (BO)

Le aziende del Gruppo S.E.F.A. Holding Spa costituiscono il riferimento principale per l’approvvigionamento di materie prime nella siderurgia, in particolare per acciai speciali e da utensili, polveri, titanio e sue leghe, soprattutto nel manifatturiero, settore attualmente in affanno per la difficoltà di reperire materie prime. Il secondo paese manifatturiero d’Europa è però divenuto tale trasformando in arte la carenza strutturale di materie prime, grazie all’ingegno delle migliaia di piccole e medie imprese italiane specializzate in nicchie di mercato. Ma oggi cosa occorre per rilanciare i talenti della manifattura italiana?

La politica italiana non si è quasi mai posta il problema della carenza di materie prime in Italia e quindi di investire nella siderurgia, perché era più comodo cavalcare gli stereotipi dell’inquinamento, indicando la siderurgia come sinonimo di aggressione all’ambiente più che di produzione di ricchezza diffusa. In altri paesi europei, invece, il siderurgico è stato il primo dei comparti industriali a essere bonificato, come dimostra il caso della nostra acciaieria di riferimento Uddeholm, che da decenni ormai ha investito in politiche di produzione non nocive per l’ambiente, producendo acciai inox e da utensili, per stampaggio e tranciatura con sistemi produttivi a basso impatto energetico. Oggi Uddeholm è munita di una specifica certificazione per il recupero delle polveri e delle scaglie di truciolo da fusione, come documenta il nuovo Uddeholm Sustainability Report 2020-21.

In Italia, invece, è indicativa la crisi dell’Ilva incominciata nell’agosto 2012. Anche se il primo campanello d’allarme degli effetti prodotti dalla mentalità anti industriale era già squillato nel 2008 per la mancanza di un progetto industriale che salvaguardasse le produzioni italiane con regole di tipo ambientale. Il problema ambientale era noto fin dai tempi della proprietà pubblica Italsider, in particolare quando è stato venduto un ramo d’azienda della Terninox alla tedesca Thyssen. Terni, infatti, era specialista nella produzione dei lamierini magnetici di silicio per motori e rotori impiegati dall’industria nazionale motoristica. Il Gruppo tedesco ha trasferito in Germania la nostra tecnologia all’avanguardia, secondo il proprio progetto industriale, mentre anche questa vendita è avvenuta nell’indifferenza generale degli italiani.

Un altro caso eclatante dell’indifferenza in materia di industria siderurgica è stato quello di Piombino, specializzata nella produzione delle rotaie ferroviarie più lunghe d’Europa. Fino a oggi, in cui sale agli onori delle cronache il caso della Magona d’Italia, eccellenza nazionale nella produzione di banda stagnata per l’inscatolamento dei pomodori, ora venduta a un fondo inglese. E, mentre il comparto dell’industria conserviera è compromesso, la morale della favola è che oggi nella produzione di banda stagnata dipendiamo per l’80% da paesi come Ucraina, Russia e Turchia e non abbiamo più grandi aziende nazionali che possano trainare lo sviluppo industriale del paese.

In Italia è sempre mancata una vera politica industriale, perché chi sedeva in Parlamento ha preferito seguire le tendenze dell’audience popolare per raccogliere consensi. Per questa via, man mano che aumentavano i pensionati, si riduceva la “forza lavoro”, sostituendo ai lavori manuali quelli pseudo-intellettuali o pseudofinanziari, a danno della produzione e del commercio. Lo specchio di questa “transizione anti industriale”? Nel 2000 in Italia si producevano un milione e mezzo di automobili, oggi sono appena 450 mila e l’unico stabilimento rimasto è a Melfi, dov’è in programma la produzione di quattro modelli di auto elettriche. Ma per la costruzione dell’auto elettrica è impiegato il 50% in meno di pezzi e di manodopera. Questo è un tema molto delicato e spesso presentato sotto le spoglie di un perbenismo sociale che non ha il coraggio di raccontare gli effetti degli investimenti nella mobilità elettrica.

Cosa state constatando nell’attuale tessuto industriale?

La parola “ripartenza” a me non piace affatto, perché l’azienda non lavora con la modalità stop and go e non ha un pit stop. L’economia non è ancora tornata ai livelli precedenti il 2019, dal momento che interi settori sono ancora in cassa integrazione. I nostri venditori visitano in media al giorno sei o sette aziende, di cui tre o quattro sono spesso più propense a chiudere. In generale, dall’inizio del 2020 la forza lavoro dei nostri clienti è stata ridotta di circa il 15/20%, esclusi i grandi gruppi. Nelle nuove generazioni di imprenditori (anche questi in numero sempre più ridotto) constatiamo la difficoltà di integrarsi, di trovare manodopera e di fare formazione interna. Inoltre, le commesse sono sempre più incerte e pagate sempre meno: la sub-fornitura ha subito e continua a subire la pressione dei grandi gruppi industriali. Tutte le piccole e medie imprese, soprattutto quelle con meno di quindici dipendenti, hanno difficoltà a tenere il passo rispetto a quelle più strutturate. In molte di esse, le cosiddette seconde o terze generazioni non stanno seguendo l’attività industriale, perché non trovano soddisfazione, spesso a causa delle mancate marginalità necessarie per continuare a investire e a qualificare il proprio messaggio. Perché è con questa ambizione che nascono le imprese!

Le imprecisioni che abbiamo notato in questi ultimi mesi nelle produzioni di alcune aziende sono frutto anche delle grandi paure di questo periodo: paura di sbagliare, paura di non farcela, paura di non prendere le commesse. Spesso sono proprio le piccole imprese che intervengono per correggere gli errori tecnici di quelle di grandi dimensioni, perché per esempio disegnare un prodotto è un conto, ma produrlo è un altro. In questo contesto è quindi più difficile lavorare in maniera costruttiva, aperta e collaborativa, come invece avveniva negli anni ottanta e novanta, quando era favorita la crescita delle PMI, che poi divenivano grandi imprese italiane.

Il tema di questo numero esplora gli indici della riuscita e della direzione anche nell’ambito industriale. In che termini lei constata tali indici?

Nonostante il quadro che ho appena abbozzato, quando vado in un’officina vedo anche imprenditori che non cedono o che vendono cara la pelle, piuttosto. Noi incontriamo un’ampia varietà d’imprenditori, da quello che lavora con la moglie e il figlio fino all’azienda strutturata con migliaia di dipendenti. E siamo in grado d’integrare esigenze così diverse adattandole a necessità specifiche grazie alle nostre tecnologie per acciai da stampi. Per questo siamo divenuti interlocutori di riferimento delle aziende sia di grandi sia di piccole dimensioni, che si affidano al proprio fornitore di fiducia anche per acquisire informazioni su come utilizzare l’acciaio acquistato. Non dare voce a chi produce è fra le mancanze politiche più gravi di questo paese, che pare più attento al pettegolezzo dei talk show televisivi. Entrando nelle officine notiamo l’abbandono di questi uomini da parte della società, perché sono considerati mera forza lavoro, anziché essere valorizzati per l’apporto economico e intellettuale, per la portata degli investimenti in tecnologie, per la loro funzione di scuole di pensiero e di mestiere: queste imprese spesso fanno ciò che non sono in grado di fare lo stato e la scuola.

L’uomo ha l’esigenza di costruire e di fare. Quando un paese umilia tutto questo e non ha un progetto industriale, quale può essere la direzione? Possiamo sognare il motore a idrogeno o la fusione nucleare, ma poi come li facciamo, se vige questo pregiudizio contro l’industria? Ci accorgeremo degli errori quando sarà tardi, dal momento che intanto sembra vincere l’opportunismo politico che predica la calma e la pratica del “non devi pensare”. Invece, l’imprenditore ha bisogno di progettare e d’intraprendere nuove vie. Ecco perché noi siamo informati su quanto sta accadendo, per esempio, per le materie prime nel mondo e continuiamo instancabilmente a dare il nostro apporto alla città del secondo rinascimento, la città dell’industria e della vita, la città degli uomini che trovano la loro soddisfazione inventando e costruendo contro ogni disfattismo e negativismo.

Questo impegno prosegue anche quando effettuiamo colloqui di lavoro. I giovani, soprattutto, arrivano da noi muniti dell’elenco di corsi di ogni genere che hanno seguito, perché c’è un sistema che li ha spinti a imparare la teoria più che a fare. Quando entrano in azienda e, per esempio, si sentono dire che per fare il venditore occorre seguire un percorso, spesso hanno una reazione di smarrimento. Arrivano qui con un’idea del lavoro che non corrisponde a quella reale e si scoraggiano: “Non sono capace di fare questo lavoro”, “Io tutta la vita devo fare un lavoro come questo?”. Allora, accade che qualcuno si mette in discussione. Sono questi i casi in cui constatiamo l’indice della riuscita. E la loro riuscita è propedeutica a quella di tutte le aziende del Gruppo.

Constato altri indici della riuscita quando, per esempio, prendo in mano una confezione di yogurt, che ha la chiusura ermetica a strappo, garantendo così la freschezza del prodotto. Questo è possibile grazie a uno stampo, a una lastra, a un film di plastica opportunamente svolto, sagomato con stampi prodotti su misura per il contenitore di plastica termoformato – quindi attraverso un processo complesso e non banale – prodotto da aziende che ne hanno ricavato un business, con stabilimenti di migliaia di operai specializzati a ottenere questi risultati. Tutte queste tecnologie sono indici della riuscita di un intero paese, sono reddito di civiltà che resta ancorato ai valori dell’Italia, che non si stanca di produrre ricchezza.