IL DISAGIO, LA FOLLIA, LA VITA SENZA IL PREGIUDIZIO PSICHIATRICO
Quando ero a Firenze appena laureato, un amico medico mi disse che c’era un centro del dottor Assagioli, in cui si discuteva di psicologia e di psicanalisi e per curiosità ci andai. Assagioli è stato il primo a pubblicare un articolo di psicanalisi in Italia, dove la psicanalisi ha avuto difficoltà a entrare. Successivamente, fondò quel movimento che si chiama psicosintesi. Diceva che bisogna fare in modo, con l’incontro e il dialogo, che le capacità creative degli uomini si sviluppino, anziché essere soffocate. Feci allora conoscenza con una signora anziana, che da tanto tempo frequentava il suo centro e da tanti anni si occupava di problemi psicologici. Inoltre, era appassionatissima di problemi di mistica orientale, che negli anni Sessanta non era di moda. Un giorno andai a trovare Assagioli e lo trovai che stava discutendo con una signorina dell’internamento di questa signora settantenne nella clinica di Settignano, perché lei non ce la faceva a convivere con i suoi coinquilini. Io rimasi molto meravigliato, in quanto avevo fatto amicizia con quella signora ed ero molto affascinato dalla sua sensibilità, dalla sua intelligenza e dalla sua cultura, anche se non condividevo quasi niente di quello che diceva. Quando sentii dire che volevano internarla, domandai ad Assagioli e alla signora, che era la sorella, che cosa stesse accadendo. Mi dissero che era stata internata altre due volte e che, caduta in preda al delirio di persecuzione, non poteva più vivere assieme a quelli che abitavano vicino a lei. Andai a parlare con quella donna e mi disse che aveva subito, con dolore, disperazione e umiliazione, già due ricoveri e non capiva come il dottor Assagioli, che la stimava tanto, potesse provvedere in questo senso. Raccontò che aveva dei conflitti con i vicini: era una donna di oltre settant’anni che viveva da sola e si sentiva estranea all’ambiente del suo palazzo e del suo quartiere. Il quartiere era comunista, lei aveva invece questa impostazione mistica e con gli altri non si capiva; poi c’erano anche le difficoltà che ci sono sempre in un condominio. Era sola e spaventata, non sapeva come difendersi. Allora le dissi che avrei parlato con i vicini e lo feci, cercando di discutere di quello che accadeva realmente; poi andai da Assagioli e gli dissi che non doveva ricoverare quella donna. Dal momento che lui era preoccupato, gli dissi che mi prendevo tutte le responsabilità al riguardo. Per farla breve, la persona non è più stata ricoverata per il resto della sua vita. Da quando mi aveva conosciuto aveva smesso di vivere nel terrore di essere considerata una pazza, di essere ricoverata in una clinica in cui vedeva altre persone considerate pazze, che non potevano comunicare con lei, perché ognuno aveva i propri problemi. Nelle cliniche non si comunica con nessuno. Con me lei ebbe questa svolta nella sua vita, ma io non ho fatto niente di speciale, come non ho fatto niente di speciale dopo: ho semplicemente ascoltato lei e i vicini e ho cercato di capire che cosa accadeva nella realtà. Siamo passati, così, dal delirio di persecuzione e paranoia, come avevano scritto gli psichiatri nelle cartelle, al dialogo tra due persone diverse per cultura ed età, che avevano esaminato insieme il problema ed evitato disastri. Qui comincia la mia storia rispetto alla psichiatria. A seguito di questo incontro, venne da chiedermi: “Ma quelli che finiscono in manicomio sono come questa donna, oppure c’è qualcosa di radicalmente differente?”. Devo dire che, dopo trent’anni di lavoro in campo psichiatrico, nessuno può smentirmi quando affermo che le persone finiscono in manicomio perché non è stato capito quello che accade. Quello che accade non è qualcosa di stravagante o di metafisico, si tratta di rapporti tra le persone, in un mondo in cui le persone non sono soggetti di libertà, di sensibilità, di fantasia, creativi, ma sono funzioni, cioè devono funzionare in un certo modo per scopi che non le riguardano, espropriate della loro personalità che deve servire ad altro. Anche l’intellettuale deve servire a far qualcosa, è considerato una funzione, al servizio del partito, dello stato, dell’azienda. Ho letto di recente un libro di un francese, pubblicato nel ‘97, dal titolo italiano Geni da legare. In questo libro troviamo tutti i grandi artisti. Mozart era pazzo perché aveva paura poco prima di morire: quando gli fu commissionato il Requiem da un signore che lui non conosceva, fu preso dallo spavento e pensò che non l’avrebbe portato a termine e, in effetti, non l’ha ultimato. Però, gli psichiatri asseriscono che non aveva il cervello a posto perché aveva paura della morte poco prima di spirare. Beethoven ha scritto la terza sinfonia dedicandola a Napoleone, perché pensava che, essendo Napoleone una conseguenza della rivoluzione francese, avrebbe portato nel mondo l’uguaglianza e la libertà di cui la rivoluzione francese parlava. Quando si accorse di essere rimasto ingannato, voleva addirittura bruciare la terza sinfonia. Era anche un antimilitarista. La sera andava in birreria per bere qualche birra, ma si arrabbiava quando vedeva un militare e, qualche volta, gli andava incontro insultandolo, perché non sopportava le divise. Questo era un comportamento di Beethoven dopo aver bevuto qualche birra la sera, dopo aver scritto quei quartetti che sono un patrimonio insostituibile per la nostra beatitudine e anche per l’approfondimento della conoscenza della nostra interiorità. Ecco, Beethoven era matto! Però, nel libro figurano anche personaggi apparentemente equilibrati, come Goethe, Byron, Haydn, che era molto religioso, quando gli mancava l’ispirazione, prendeva un breviario e pregava. Questo, secondo l’autore, era un segno che Haydn non aveva il cervello a posto. Gli psichiatri sono nemici della creatività, ma noi tutti siamo creativi e, allora, se facciamo qualcosa che non è previsto dallo schema mentale dello psichiatra, siamo già considerati matti. Si parla tanto di depressione. Se io me ne sto buono e mi faccio gli affari miei, nessuno mi dà noia, però se faccio qualcosa che può andare contro il costume, lo psichiatra interviene con la forza perché vede un comportamento che non si concilia con le regole e quindi va represso con un internamento in cui si usano ancora camicie di forza ed elettroshock. La storia della psichiatria è fatta di queste cose. L’unico portoghese che ha preso il premio Nobel per la medicina, nel ‘48 o ‘49, si chiama Egas Moniz: ha ricevuto il premio per aver inventato la lobotomia. Aveva sentito dire a un congresso che in laboratorio le scimmie sono difficili a sottoporsi a esperimenti perché sono vivacissime e si ribellano. Il metodo usato per farle stare buone era quello di tagliare loro i lobi frontali: in questo modo diventavano quiete e tranquille e si sottoponevano a tutti gli esperimenti che il medico di laboratorio intendeva fare. A Moniz questo racconto ha suggerito l’idea di estendere il trattamento agli internati in manicomio, cominciando a operare in questa direzione con un amico chirurgo. Ha affermato che solo il 3 o 4% dei pazienti non sopravviveva. Ma, in ogni caso, gli altri come restavano? La lobotomia si pratica nel caso della depressione, per impedire che una persona possa uccidersi. Con la lobotomia la persona perde completamente l’attenzione interiore, non ha più personalità e iniziativa, non è più capace di fare un progetto. Freeman dice che la lobotomia è meglio farla a una lavandaia che a un artista, perché, distruggendo la creatività, può darsi che la lavandaia continui nel suo lavoro. Questo è nazismo! Certamente i risultati sono buoni, nel senso che le persone sono quiete e non c’è pericolo che prendano iniziative che potrebbero risultare spiacevoli per il perbenismo. Ma qual è la loro vita sociale? La lobotomia dovrebbe parlare da sé. Ma non basta: c’è l’insulina coma, con cui una persona viene messa in stato di coma, poi ci sono la febbre malarica e l’elettroshock. La lobotomia è stata inventata sperimentando sulle scimmie, l’elettroshock sui maiali e così via. Questa è la storia della psichiatria ed è anche la storia della medicina, perché la medicina è sempre stata al servizio del potere, fin dall’antichità, fin dai tempi di Ippocrate, ora lo è in un modo soltanto più raffinato. Da una parte, la medicina dovrebbe occuparsi della salute delle persone, dall’altra, deve tenerle entro certi limiti, e questo è il suo compito fin dai sacerdoti egiziani. Ora, la medicina di cui parliamo, la nostra medicina ufficiale, a parte qualcuno che cerca di rivedere tutto, è una medicina dell’oggetto da riparare, anziché della salute della persona. La psichiatria è una variante, nel senso che qui la persona non ha un disturbo fisico, ma ha problemi con se stessa e con gli altri; questi problemi non vengono presi in considerazione, si porta dentro la persona e la si distrugge. Io voglio che qualche psichiatra venga a dirmi se c’è nella storia della psichiatria un solo intervento previsto che non sia distruttivo, e deve dirmi qual è. La psichiatria, anziché occuparsi dei problemi reali che riguardano un individuo e le persone che gli sono vicino, si occupa semplicemente di prendere la persona e metterla da parte, oppure di farle qualche operazione distruttiva. Questo mondo che si presenta come scientifico distrugge le persone e queste poi non sanno a chi rivolgersi. Mi telefonano da tutte le parti per chiedermi: “Che cosa faccio?”, ma è impossibile che una persona sola o anche due o tre possano contrapporsi a un’intera cultura di distruzione, una cultura in cui, quando qualcuno non riesce a essere “regolare” nei minimi particolari, finisce per essere in qualche modo distrutto, non solo in manicomio, ma anche fuori perché c’è indifferenza o incomprensione o tutte e due insieme. Quando una persona ha problemi difficili, chiedo al padre, alla madre o alla sorella se vogliono distruggerla o no. Se vogliono farlo, si rivolgano agli psichiatri. Noi affrontiamo il problema da un punto di vista enormemente più difficile, cercando di capire quello che accade, nel rispetto della personalità individuale. Se, di fronte a una situazione in cui ci sono conflitti, si considera quello degli psichiatri un intervento e senza quello non c’è altro, non si è capito assolutamente niente, non si è capita la storia della psichiatria, che ha riempito di milioni di vittime le istituzioni, facendone campi di concentramento, e non ha mai risolto un singolo problema. Io voglio sapere qual è il genitore che, avendo un figlio di sedici anni con difficoltà a vivere in famiglia e tra gli altri, pensa che questo figlio debba passare quarant’anni in manicomio oppure debba essere lobotomizzato o avere l’elettroshock o entrare in coma. Quindi, lavorare in un altro modo significa non distruggere le persone, ma cercare con difficoltà di capire i problemi, perché queste persone hanno il diritto di vivere come gli altri, che sono ugualmente implicati nelle questioni di cui si parla.