TOLLERANZA E IMPRESA

Qualifiche dell'autore: 
vice presidente di Confindustria russa

Intervista di Sergio Dalla Val

Nel suo intervento al forum mondiale di cifrematica La tolleranza nel terzo millennio. L’Altro, il tempo, la differenza (Villa San Carlo Borromeo, Milano Senago, 10-12 giugno 2005), lei ha parlato di tolleranza e politica, tolleranza e cultura, tolleranza e anziani, ma non ha parlato di tolleranza e industria.

Il rapporto tra industria e tolleranza è un terreno sconosciuto, purtroppo, finora mai esplorato. Però il problema esiste. Noi ci troviamo certamente in un nuovo momento di grande rivoluzione industriale. Ma l’industria serve a fare l’umanità, globalmente, più ricca, più intelligente, più aperta al mondo? Oppure, l’industria finisce per logorare, uccidere alcuni popoli?  Recentemente, un’assemblea di Londra ha dedicato l’attenzione esclusivamente alla cancellazione del debito dei paesi poveri, e non era un problema teorico, ma un problema che richiedeva una decisione drastica cinque, dieci anni fa, perché la migrazione di tutti i popoli è anche un pericolo per l’Europa. Non si tratta solo di centinaia di persone che vengono dal Maghreb o da altri paesi dell’Africa, ma di una migrazione di interi popoli, malgrado lo sviluppo dell’industria. E, allora, dobbiamo chiederci se l’industria sta seguendo la strada dello sviluppo nella direzione di cui ha bisogno il mondo attuale o in una direzione di cui il mondo non ha bisogno.

A proposito dell’industria dell’informazione, le tv africane hanno bisogno dello sviluppo di questo settore su cui i miliardi di dollari sono investiti, o hanno bisogno dello sviluppo di tecnologie più modeste? Prendiamo la Bolivia, dove è in corso una tragedia nazionale. I boliviani, secondo me, non hanno bisogno per ora di tecnologie dell’informazione, ma, piuttosto, dello sviluppo della distribuzione di gas. Dunque, posso rispondere che occorre prestare attenzione non solo alle finalità imposte dalle brillanti menti degli scienziati, verso cui tutto il mondo nutre forti simpatie, ma anche allo sviluppo delle industrie per la maggioranza della popolazione mondiale.

L’industria può fare molto per la democratizzazione e la tolleranza in Russia?

La risposta richiederebbe molta consapevolezza, occorrerebbe sapere chi si trova al volante dell’industria russa. Noi abbiamo tutto l’interesse che ci sia varietà, ma lasciare la gestione dell’industria russa nelle mani del signor dollaro o del signor euro è un errore assoluto. Questo veniva enunciato dieci, quindici anni fa, quando i giovani erano al volante del governo e non erano propriamente consapevoli di quello che dicevano: “Il mercato metterà ogni cosa al suo posto”. Questo è un grave errore. Oggi, devo fare i complimenti all’attuale governo, perché la partecipazione dello stato nella gestione dell’economia nazionale è una cosa indispensabile. La Russia, come paese che appartiene all’Europa – infatti, solo gli Urali dividono l’Europa russa dall’Asia russa –, non può permettersi di essere un paese la cui vita dipende soltanto dalle materie prime. Questo è un problema globale, non un problema russo, è il problema del continente europeo. La Russia non può permettersi il gran lusso di essere solo fornitore di gas e petrolio. La Russia dovrebbe essere sviluppata in modo tale da essere il ponte tra Europa industrializzata e Oriente, che è oggi un altro Oriente. Giappone e Cina non sono quelli di venti, trent’anni fa, sono paesi con uno straordinario sviluppo industriale, a partire dall’industria dell’acciaio, a quella petrolifera, a quella automobilistica e informatica. Dunque, l’Europa è la prima interessata agli investimenti in Russia per assicurare l’armonia economica mondiale, dall’Atlantico al Pacifico. Gli ultimi passi dell’industria russa, che io considero molto positivi, sono in direzione di un rinascimento. Oggi, lavorare per l’industria nucleare, per quella automobilistica o delle apparecchiature informatiche sta diventando altrettanto prestigioso che lavorare per l’industria del gas e del petrolio. Quindici anni fa, tutti pensavano che i soldi si guadagnassero velocemente soltanto nell’industria delle materie prime, oggi stiamo assistendo a un vero e proprio rinascimento dell’industria russa.

L’Italia ha da guadagnare o da avere paura dello sviluppo dell’industria russa?

Il 23 giugno ho partecipato all’assemblea della commissione intergovernativa italo-russa, a Mosca, con la partecipazione del Ministro dell’Industria e del Commercio italiano, accompagnato da trenta fra i più grandi industriali italiani. Questa è una risposta parziale alla sua domanda. L’industria italiana non ha nessun motivo per avere anche la minima paura dello sviluppo russo. Negli anni sessanta, ho partecipato alla creazione del progetto Togliattigrad, stimato per un valore di 2,5 miliardi di dollari, alla fine ha portato a piccole e medie aziende italiane, sottofornitrici della Fiat, ordini dalla Russia per 25 miliardi di dollari. Grazie a questi ordini, le grandi città come Torino, le piccole e medie imprese di Milano – Innocenti, Magneti Marelli – e altre aziende dell’Emilia Romagna hanno veramente prosperato, hanno guadagnato moltissimo, attraverso quel grande colosso che era la Fiat. Adesso non c’è un progetto di tali dimensioni, ma soltanto il cosiddetto Blue Stream, che però è limitato al gasolio della Russia, a quello del Mar Nero, a quello della Turchia, fino al territorio italiano. È un gran progetto, ma non dà da mangiare alle aree industriali di Milano o di Torino.

Gli italiani come imprenditori sono visti in Russia come proprietari di ristoranti, pizzerie e negozi di lusso, non come grandi capitani di industrie come era trenta, o quarant’anni fa. Posso elencare molti nomi, da Enrico Mattei all’ingegnere Valerio della Montedison o ai fratelli Agnelli. Questi erano autori di progetti transnazionali, in cui non si trattava di costruire McDonalds italiani a Mosca o a San Pietroburgo. Oggi mancano i progetti che veramente hanno rappresentato il terremoto per le province italiane.

Eppure ci sono varie aziende italiane in Russia…

Stimo moltissimo i progetti imprenditoriali in atto, al cui riguardo non voglio dire nulla di negativo. Ma c’è una linea netta di distinzione tra le strategie di trent’anni fa e i progetti delle industrie di mobili della città di Cerea o della società Inalca a Modena di Cremonini. Queste attività concernono Modena e Cerea, non tutta l’Italia o tutta la Siberia. Da parte italiana e russa mancano i progetti giganteschi che potevano coinvolgere le industrie italiane e le piccole e medie aziende, come il progetto già menzionato della Togliattigrad dell’epoca. Ma tutto ciò richiederebbe il coinvolgimento delle banche.

Com’è la situazione a questo proposito?

Quello bancario è il problema numero uno. Quindici anni fa ho partecipato a Roma all’inizio della creazione della società Simest, una società bancaria controllata dallo stato. Questa società, che contribuisce moltissimo allo sviluppo dei rapporti internazionali, cerca dei progetti e investe il 15% come stato italiano. Questo è già un semaforo verde per le aziende per giungere alla realizzazione di progetti, perché le piccole e medie aziende hanno paura del rischio. È un problema di vita o di morte, non possono correre il rischio, non possono permettersi un bilancio negativo, la loro vita dipende dal risultato positivo.

In Russia ci sono accordi di credito con grandi banche italiane, non posso certo non citare MedioBanca, che è ben vista da noi. Ma non ci sono accordi con le altre, che pure sono presenti sul mercato. Se guardiamo a ciò che sta avvenendo a livello transeuropeo e transoceanico nel campo dell’attività bancaria, oggi assistiamo a varie fusioni tra le banche olandesi, inglesi e americane con le banche italiane, e i 10, 15 miliardi di dollari sono considerati la regola del gioco. per quanto riguarda l’attività delle banche italiane sul territorio russo. Ma per quanto riguarda l’attività delle banche italiane sul territorio russo, non ci sono progetti di tali dimensioni.

Banca è una parola italiana. La prima banca è nata a Perugia nel XIV secolo, la si può ancora vedere nel centro della città antica di Perugia. Dunque, gli italiani sono i migliori bancari del mondo, hanno molto knowhow, esperienza e, se con questa vogliono penetrare il mercato russo, devono condividerla con i colleghi russi, perché per noi l’attività bancaria su scala internazionale è una novità. Quindi, c’è spazio per Banca Intesa, per Mediobanca, per il San Paolo di Torino. Eppure, finora, sto osservando non una mancanza di volontà ma una certa timidezza. Manca la sfida, ma la sfida è necessaria per la grande economia. Certo, le banche russe sono molto professionali nei rapporti con i privati, ma non sono vere concorrenti delle banche tedesche e francesi.

La Cina fa paura all’industria russa?

In Russia non c’è nessuna paura. Da una parte c’è una cooperazione molto stretta nel campo dell’industria dell’acciaio: sono i Russi che hanno costruito i giganti della siderurgia cinese, posso citare il grande stabilimento della città di Anshan. Mentre ero studente dell’Università tecnica di Mosca, abbiamo avuto 5000 studenti cinesi, studenti come noi, negli anni cinquantacinque-sessanta. I russi hanno contribuito alla costruzione di stabilimenti cinesi di automobili e potrei continuare a citare esempi, ma vorrei rispondere precisamente alla sua domanda.

Ci sono cooperazioni nel campo dell’industria bellica di oggi, dell’industria di base, ci sono progetti enormi anche per costruire impianti di trasporto per il petrolio e il gasolio dalla Siberia fino alla frontiera con la Cina, oppure sul passante Mongolia direttamente dal lago Baikal verso il territorio cinese. Ci sono progetti nel campo della telecomunicazione: ChinaTelekom è un partner strategico delle compagnie di telecomunicazione russe. Stiamo assistendo la Cina e lanciamo i satelliti di telecomunicazione nello spazio. E poi c’è un commercio che da noi si chiama “Commercio del Nabet”, cioè piccolo commercio di gente che viene dalla Cina in Russia per vendere i loro prodotti, gli stessi capi di abbigliamento e calzature che fanno paura agli italiani. Ma la differenza tra la Russia orientale e l’Italia consiste nel fatto che la popolazione di questa parte abbandonata della Russia è capace di consumare tutto. In Italia voi non avete bisogno che i cinesi vengano a Milano o nelle belle boutique delle città di Carpi o di Modena, e facciano la concorrenza alle aziende già di grandi dimensioni. Ma non ci sono industrie di lusso in città come Vladivostok, Barask, non c’è la presenza di mercanti italiani e noi siamo capaci di consumare i prodotti della Cina in quantità illimitate. Dunque, non c’è il grande problema di cosa succederà nel prossimo futuro  riguardo al commercio del Nabet.

Sono convinto che stiamo arrivando al grande problema di oggi, del commercio come proprietà intellettuale, copyright, trade secrets, brevetti, i problemi con i quali gli americani adesso sono occupatissimi. Oggi in America il commercio dei diritti intellettuali frutta qualcosa come 12 miliardi di dollari. Non conosco esattamente le cifre in Italia ma è già una grande preoccupazione per le aziende italiane.

Traendo le conclusioni, la dimensione della Russia e i rapporti di vecchia amicizia con i cinesi – il vecchio presidente della Cina è stato addestrato in Russia, parla russo – sono fattori che devono essere presi in considerazione sempre.