LA PSICOFARMACOLOGIA CONTRO I BAMBINI

Qualifiche dell'autore: 
medico, saggista

Intervista di Sergio Dalla Val

Da sempre lei si batte contro l’uso degli psicofarmaci e scrive che si tratta di modi per sedare il disagio, non per curare. La questione sembra ancor più evidente nel caso dell’uso di psicofarmaci per i bambini.

È proprio così. Innanzi tutto, la differenza dei comportamenti dei bambini esplicita che non sono ancora stati normalizzati. Siamo noi adulti ad avere gran parte dei comportamenti legati a abitudini che ci sono state più o meno imposte. Il bambino, per sua fortuna, ha una serie di modi per dir così spontanei, che hanno motivazioni spesso stroncate fin dalla tenera età da fattori educativi impositivi. Oggi la stroncatura vuole diventare ancora maggiore: quando il comportamento del bambino diventa “troppo”, gli si attribuiscono addirittura nuove patologie. Il troppo, naturalmente, non è un concetto scientifico: cosa vuol dire “troppo”? Chi lo stabilisce? “Troppo” è, magari, quando “qualcuno vuole disturbare me”. È evidente che, facendo diagnosi in questo modo, tutto diventa soggettivo e la percentuale di malati dipende unicamente “da quanto io sono disposto a essere disturbato”. I “disturbati” possono essere i genitori o, ancora più frequentemente, gl’insegnanti. Ma anche gli psicologi o gli psichiatri o tutti coloro che si pongono in relazione con i bambini.

Quando si espongono queste tesi, una delle classiche argomentazioni è l’estremo limite cui può arrivare la “sfrenatezza” di un bambino.

Anche il caso “estremo” ha sue motivazioni, legate a tante cause, ed è, ancora una volta, una manifestazione, non una malattia, non “la” causa. Inoltre, i casi cosiddetti estremi, per fortuna, sono rari. Ma, se i nuovi procedimenti – sulla base di “domandine” standard che hanno lo stesso valore “scientifico” dei test ludici fatti sulla spiaggia leggendo i giornali popolari – poi autorizzano trattamenti, questa è un’azione che giudico scellerata, se non criminale.

Può dare qualche elemento su questo tipo d’intervento? Cosa sta succedendo in Italia?

Il fenomeno è iniziato negli Stati Uniti già da vent’anni. La procedura è sempre la stessa. Una campagna mediatica informa la gente che c’è un certo problema, come se la gente non si accorgesse dei problemi. Il problema dev’essere spiegato, evidenziato. A questa prima informazione segue una seconda fase: quella dei test. All’inizio viene detto che i test servono a saggiare il livello di un certo problema. Poi i test vengono estesi. Nel frattempo, cresce la campagna mediatica e iniziano a costituirsi associazioni che confermano, anche attraverso manifestazioni pubbliche, la gravità del problema e la necessità di fare qualcosa per affrontarlo. Si passa così alla terza fase, che è la formazione di personale per affrontare il problema.

Nel caso dei bambini, oggi, la formazione ha come obiettivo gl’insegnanti delle scuole, che vengono addestrati anche a fare i test, sempre adducendo la motivazione che il problema è grave. Tali test, in mancanza delle famose scansioni cerebrali o delle analisi del sangue, sono costituiti da “domandine”, del tipo: “Si agita troppo spesso?”; “Non riesce a stare seduto, fermo, sulla sedia?”; “Spiattella spesso le risposte prima che abbiate finito di porre la domanda?”; “Irrompe nei giochi degli altri bambini senza aspettare il proprio turno?”. Se si riesce a convincere prima gl’insegnanti e poi i genitori, il gioco è fatto.

In Italia si sta cercando di farlo. Sono stati fatti i test sperimentali in varie scuole in cinque regioni. Al ministero della Salute stanno approntando il modulo di consenso informato. Noi abbiamo esaminato la prima bozza di questo modulo e abbiamo rilevato, tra le tante cose, che i genitori “possono” essere informati, non “devono” essere informati. Sono stati già approvati i criteri secondo cui dovranno essere presi provvedimenti. Il piano sta procedendo, ma per fortuna, in Italia, per una serie di motivi, sta trovando una notevole opposizione.

Vent’anni fa, negli Stati Uniti, avevano affermato che con la somministrazione del Ritalin e di altri farmaci, con la cosiddetta assistenza psichiatrica e neuropsichiatrica infantile, con la diagnosi precoce dei disturbi in età infantile e evolutiva e con il trattamento della cosiddetta depressione infantile, sarebbe migliorata la resa scolastica, diminuito il numero di tossicodipendenti, si sarebbe ridotto il numero di suicidi tra bambini e adolescenti e la frequenza della violenza nelle scuole. Ora, guardiamo i risultati: il tasso di apprendimento scolastico è crollato, tanto che tre milioni di persone non sanno leggere e scrivere e quaranta milioni non sanno leggere e scrivere bene. Il tasso di suicidi in questa fascia di età è più che decuplicato, la tossicodipendenza è ormai fuori controllo. Quanto alla frequenza della violenza nelle scuole, credo che non ci sia bisogno di commenti: basta aprire i giornali di questi ultimi anni, per avvertire l’enormità del problema. Se questi sono i risultati negli Stati Uniti, vogliamo ripetere la stessa esperienza e lo stesso programma in Italia? Ma c’è un altro aspetto molto importante: quando un adulto assume una droga o uno psicofarmaco, cioè una sostanza psicotropa che altera la percezione di se stesso o delle relazioni, sia che si tratti di un tossicodipendente o di un paziente che assuma psicofarmaci, se gli capitano certi pensieri, certe percezioni, certe alterazioni, sa che sono una conseguenza del farmaco o della droga. Ma se a un bambino di due o tre anni viene l’idea di buttarsi dalla finestra, come fa a sapere che forse è meglio che ne parli perché può essere un effetto del farmaco? Dopo la Food and Drug Administration, anche l’Ente europeo per il farmaco ha pubblicato, finalmente, i risultati che dimostrano che una percentuale dal 2 al 4% delle persone che prendono antidepressivi di nuova generazione, i cosiddetti inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, possono sviluppare idee e tendenze suicide.