I BENI CULTURALI. TESTIMONIANZA MATERIALE DI CIVILTÀ
Non avrei mai scritto di mia iniziativa il libro I beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà (Spirali): è stato l’intervento dell’editore Armando Verdiglione a innescare un percorso di ricerca delle radici di un lavoro nell’ambito dei Beni Culturali, che svolgo tuttora, ma che risale a oltre un quarto di secolo fa. E ora devo riconoscere la mia soddisfazione per questa pubblicazione che mi consente di offrire un contributo sull’argomento.
Non è un caso che il libro incominci con un riferimento a un famoso articolo dell’“Economist” del 26 novembre 2005, il quale, se da una parte rappresentava una gigantesca stroncatura verso l’attività economica del precedente governo, dall’altra, giudicava positivo l’impegno dell’Italia per la tutela del patrimonio culturale. La mia reazione fu quella di chiedermi quale fosse la verità e dove fosse il punto di equilibrio tra ciò che sistematicamente viene detto dai detrattori di casa nostra – che lamentano un patrimonio culturale svenduto, mal ridotto, degradato e privo di considerazione – e quel riconoscimento di valore, quasi inaspettato, proveniente dall’estero. Penso, per esempio, a Viollet-le-Duc, che in un suo scritto riconosceva come le chiese italiane fossero meglio conservate di quelle francesi, che all’epoca vivevano un profondo stato di degrado. Ho cercato di condurre una riflessione partendo da lontano e mantenendo quel distacco coadiuvato dalla storia, che consente di non imbattersi in futili polemiche.
Anche per questo mi è stata molto utile la rilettura della relazione della Commissione Franceschini del 1967, composta da ben tre volumi di diverse centinaia di pagine. Qual è la questione emersa nella relazione? E qual è il modo per comprendere la nostra capacità o meno di tutelare il patrimonio culturale? L’idea, condivisa da tutti i membri della Commissione, è che bisogna abbandonare il concetto di monumento per passare a quello di testimonianza storica. In altri termini, secondo la Commissione, la difficoltà di conservazione del patrimonio culturale in Italia, nel 1967, è riconducibile a una visione parziale del problema: finché non si riconosce che non sono soltanto i cosiddetti monumenti a formare il patrimonio culturale, non si affronta la problematica nella sua complessità. Soltanto prescindendo da un’idea di arte che ancora oggi informa il nostro atteggiamento nei confronti della conservazione e riportandola a una valutazione più ampia, si approda al concetto di testimonianza storica. Questo significa un ampliamento a dismisura della dimensione della tutela che non si rivolge più solo a monumenti, come San Petronio a Bologna o la basilica di San Marco a Venezia, ma alla stratificazione del contesto storico, cioè al materiale che nell’arco del tempo si è stratificato e ha assunto connotati di testimonianza. E questo comporta esiti differenti anche in termini d’intervento, per cui non è più efficace il restauro che tenda alla conservazione di un’immagine da cartolina della fabbrica, ma quello che si rivolge alla conservazione della materialità della fabbrica, della parte architettonica considerata in quanto oggetto costituito da tutto ciò che nel tempo lo ha reso tale fino ai giorni nostri. Ecco perché gli interventi che realizziamo sono molto complessi, perché non ci limitiamo a rifare una semplice superficie ma la studiamo per cercare di conservarne l’originalità. Bologna, grazie al centro di studi nato con Cesare Gnudi tanti anni or sono e tuttora funzionante, è stata una città pionieristica e ricca di tensione operativa. La dimensione della tutela in Italia, già nel 1967, assume connotati molto diversi rispetto ad altri paesi, soprattutto europei. Nella testimonianza materiale si tratta di una tutela amplissima che riconosce oggetto della tutela il valore e il significato, interpretabili all’infinito. Il dato materiale, se conservato, può essere interpretato da tutti coloro che avranno la possibilità di vederlo, di studiarlo e di valorizzarlo. E questo avrebbe dovuto comportare una differente visione delle cose e una diversa articolazione dell’amministrazione, proprio in termini di tutela sul territorio. Non possiamo paragonarci alla Francia, dove l’ordine di grandezza dei cosiddetti monumenti – come lì li chiamano ancora oggi – è di gran lunga inferiore: siamo a circa cinquantamila oggetti, contro i nostri cinquecentomila beni immobili, a cui vanno aggiunti tutti i beni non vincolabili e quindi non riconoscibili come beni d’interesse storico-artistico se non nella sommatoria dei singoli provvedimenti di tutela, come i centri storici. Eppure, la percezione della dimensione della tutela non ha avuto in termini amministrativi un corrispettivo, cioè non c’è stata un’organizzazione che abbia tenuto conto della dimensione della tutela, se pensiamo che, oltre ai cinquecentomila beni immobili d’interesse storico-artistico, abbiamo milioni di beni mobili che vanno da quelli archeologici a quelli attinenti al patrimonio. E non abbiamo necessità impellente di nuovi strumenti che regolino la materia: credo che, per esempio, non ci fosse bisogno della 490 del 1999, né del Codice, perché sarebbe bastato che anche per la legge 1089 ci fosse stato un semplice regolamento, come non era stato fatto dal 1939, mentre è stato fatto un regolamento per la 1497.
La prospettiva della tutela diviene sempre più ampia e, in particolare, la tutela del paesaggio sarà sempre più difficile da articolare nel futuro. L’esempio recente di Monticchiello è significativo: in questo paesino della Toscana, vicino Pienza, sono stati costruiti novanta appartamenti che sono stati definiti un’eco-mostro. Al di là delle questioni giornalistiche, vorrei sottolineare che quell’area è tutelata da vari dispositivi: rientra nelle bellezze naturali secondo la legge 1497, fa parte del Parco della Val d’Orcia e, per di più, è un sito dell’Unesco. Eppure, sono riusciti, in modo perfettamente legittimo, a realizzare qualcosa che certamente non ha niente a che vedere con il contesto. Possiamo quindi dedurre che la prospettiva della tutela in futuro non ha bisogno tanto di altre leggi quanto di un’organizzazione efficace dei dispositivi di tutela che operano sul territorio, affinché lavorino in maniera intelligente, coerente, articolata e non autocratica. E occorre tenere sempre presente che non basta discutere con i Beni Culturali, il ragionamento deve essere esteso alle amministrazioni locali, provinciali e regionali, attraverso l’unico strumento possibile che la legge ci dà oggi – ma che esisteva già nel 1939, dal momento che l’articolo di Giovannoni sulla necessità dei piani paesistici è del 1928 –, che è la stesura dei Piani Paesistici Regionali, d’intesa tra le diverse amministrazioni che concorrono alla trasformazione del territorio. Uno dei primi Piani è stato redatto proprio dalla Regione Emilia Romagna, ed è l’unica prospettiva possibile per diminuire in maniera considerevole il lavoro delle soprintendenze e soprattutto le difficoltà dei professionisti che operano sul territorio, che a volte non sanno a chi rivolgersi. Quindi, occorrono sforzi costanti – e mi auguro che anche questo possa essere uno degli obiettivi delle fondazioni bancarie – per trovare risorse, sperimentare e mettere a punto esempi significativi o esempi-pilota, che consentano di superare la logica vincolistica per passare a una pianificazione paesistica concordata e condivisa.