I BREVETTI PER LA QUALITÀ DELLA VITA

Qualifiche dell'autore: 
ingegnere, socio dello Studio di consulenza in proprietà intellettuale e industriale Modiano Gardi Patents, Modena

A partire dalla sua esperienza nella consulenza sulla proprietà intellettuale e industriale, iniziata negli anni sessanta, può dirci in che modo a Modena sono cambiate le esigenze di registrazione e tutela dei brevetti?

Nel 1960 le aziende si preoccupavano raramente di brevettare le loro invenzioni. Erano gli artigiani, che lavoravano nelle industrie metalmeccaniche, che, non accontentandosi dello stipendio da operai, cercavano d’impostare una loro attività a partire da un’invenzione. Quindi, era frequente che mi prospettassero le loro idee: invenzioni di semplice natura meccanica e molto tangibili.

Poi, con il potenziarsi dei distretti industriali nella nostra provincia, già allora all’avanguardia – la meccanica a Modena, la ceramica a Sassuolo e la maglieria a Carpi –, anche le aziende hanno cominciato a frequentare il mio studio, anche se molto spesso per registrare invenzioni eseguite da esterni. Molte grandi aziende all’inizio non avevano una vocazione per la ricerca e, a ben pensarci, la ricerca in senso stretto ancora oggi stenta a decollare nelle aziende italiane, dove è raro trovare uffici attrezzati per inventare, come quelli presenti nelle multinazionali. Non c’è dubbio che noi italiani siamo debitori di capacità inventiva.

Se a Modena c’è una media di 400 domande di brevetti e in Italia ne sono state presentate 10723 nel 2006, Modena, città molto industrializzata, fornisce sui depositi nazionali soltanto un venticinquesimo. Dovrebbe, invece, sostenere un peso notevole e, guarda caso, Milano, Torino e Roma, i principali centri riconosciuti come porti d’ingresso dei brevetti stranieri, hanno numeri dieci volte superiori. Insomma, risulta che in quei 10723 brevetti gli italiani sono pochissimi. Ecco che noi dimostriamo di dipendere ancora dall’estero, come un tempo.

E secondo lei questo è dovuto a una carente organizzazione della ricerca?

Esattamente. Se facciamo un confronto tra le invenzioni italiane degli anni sessanta nel settore della meccanica e i brevetti tedeschi dal 1898 al 1910, sugli stessi oggetti, i tedeschi avevano registrato invenzioni molto più valide delle nostre.

Avevamo fatto epoca con i brevetti per la ceramica, purtroppo, però, negli anni sessanta, gli specialisti italiani del settore, attratti dalla Spagna e dalla Grecia, hanno portato con sé tutto il tesoro di cognizioni che consentiva alle nostre imprese di produrre le piastrelle più ricercate al mondo. E l’Italia ha cominciato a calare, facendo crescere gli altri paesi. Tuttavia, noi siamo abituati a guardare avanti, non c’interessa il nazionalismo e sappiamo che da questa esportazione di conoscenze è derivato un beneficio per l’umanità. Questa è la nostra consolazione.

Oltre a essere stato presidente nazionale del Sindacato Ingegneri docenti, dal 1978 al 2000 lei è stato delegato dall’Ordine degli Ingegneri di Modena presso la Cassa Ingegneri e Architetti e ha preparato molte proposte di legge, qualcuna delle quali è stata approvata. Per il suo impegno sociale, soprattutto con i bambini, ha meritato l’appellativo di “Signore della pace”…

Nell’esercizio della professione, ho sempre cercato di cogliere il lato umano: la brevettazione di qualcosa è un motivo di speranza per una maggiore qualità della vita, non solo per la nostra nazione ma per l’intera umanità.

Oggi comunque si sta verificando un risveglio dell’inventiva italiana nelle piccole imprese, che sembra trovare una via nuova della ricerca che potrebbe, col tempo, risultare migliore delle vie protocollate straniere.

Quali sono le trasformazioni che sono intervenute nel vostro settore?

Attualmente, c’è un pericolo nel campo dei brevetti: soprattutto in Europa, si tende a considerare valido un brevetto riguardante un aspetto nuovo che dà risultanze industriali, senza pensare che per essere validamente brevettabile dovrebbe avere anche un requisito di attività inventiva, o inventive step. Questo concetto di originalità, che non sembra che i brevetti più moderni possano avere, rende incerto il confine tra validità e non validità. È una materia molto opinabile. Per questo, in fase giudiziaria, gli apprezzamenti variano molto da giudice a giudice. Questo mi porta a segnalare un’ulteriore difficoltà: non tutti i consulenti di proprietà industriale che diventano consulenti di parte o ausiliari del giudice conoscono le basi tecniche delle materie che trattano. Per superare questo ostacolo, noi abbiamo adottato un’impostazione “leonardesca”, siamo infatti altamente specializzati in campi vastissimi.

C’è però un dato confortante che potrebbe produrre un aumento dell’inventiva italiana: se negli anni sessanta molti erano scoraggiati dal depositare brevetti, perché mancava la cultura del segreto industriale, oggi molte aziende, quando hanno intenzione di depositare un’invenzione, si fanno rilasciare dai loro artigiani una dichiarazione di segretezza.

Come consulenti, voi avete avuto anche una funzione di orientamento?

In passato, alcuni clienti inventavano un dispositivo che risolveva un problema tecnico senza conoscere la tecnologia che stavano sfruttando. Spesso, esponevano l’invenzione con il loro vocabolario, che non aveva attinenze con quello della lingua italiana, e noi dovevamo tradurre. Per loro, un “albero”, elemento meccanico rotante mosso da una forza motrice, era un “perno”. Allora bisognava passare al disegno, ma non conoscevano neppure le regole del disegno. Quindi, il consulente di proprietà industriale era anche colui che doveva fornire gli elementi tecnologici relativi alla materia dell’invenzione del cliente.

Molto spesso, poi, accadeva che, dopo avere esposto la loro idea e dopo che noi eravamo riusciti a interpretare i loro termini, la vera invenzione non fosse quella che avevano prospettato, ma un’altra, a cui non avevano pensato. Parlando, si giungeva a un’altra invenzione, ancora più efficace.