IL RENDIMENTO DELL’ESPERIENZA
Come la restituzione contribuisce alla valorizzazione? Secondo l’idea che gli obblighi sociali costituiscano la base della civiltà, la restituzione, per esempio di un dono, risulta essenziale per istituire i rapporti sociali nell’idea di parità. Si tratterebbe di restituire per ricambiare, per contraccambiare, per avviare un ordine sociale come ordine simbolico: secondo l’antropologia, con il dono non si costituirebbe il valore della cosa, bensì il valore del rapporto come base della società. Per questo il dono potrebbe anche essere inutile, proprio per marcare il suo valore simbolico di strumento dell’alleanza. Ma la credenza antropologica che la restituzione dei doni sia richiesta dalla legge dell’alleanza come radice della cultura era stata già irrisa dal filosofo Giambattista Vico, quando notava nel De uno che proprio il termine latino hostire, da cui hostis, nemico, si traduce in italiano “contraccambiare”, anche nel senso di “rendere pan per focaccia”. Tutt’altro che paritaria questa restituzione, come nel caso dell’ospitalità, nel cui etimo hospes insiste l’hostis: il regalo, differente dal dono, non pareggia, è impari, non ha paragone. La stessa alleanza allora è ironica, esige l’imparagonabile, ovvero che il paragone stesso sia ironico.
Il regalo situa chi lo riceve nel debito? Sarebbe un debito maternalistico, ricattatorio, in cui la restituzione sarebbe un rimborso, un colmamento per chiudere la partita, un ritorno all’origine. Altra cosa il debito simbolico, che dipende dal non dell’avere (de-habeo), dall’assenza di autore del linguaggio, dall’assenza di un padrone della parola. De-habeo, “ho da” e anche “non ho”: nessuna proprietà sostanziale, quel che abbiamo non ci appartiene, e noi non apparteniamo a nulla. Questa improprietà, questo debito strutturale è incolmabile, senza rimborso possibile, perché non c’è autore del regalo, non c’è chi sia all’origine della relazione. Con il debito simbolico, le cose incominciano senza origine, e procedono dal proseguimento.
Sottolineare che non c’è origine, ma proseguimento, come constata la cifrematica, comporta che la restituzione non sia il ripristino, il ritorno a una presunta origine. Notazione essenziale per l’attuale dibattito sul restauro, che allora non può essere considerato una restitutio in pristino. Come nota Roberto Cecchi in questo numero, la valorizzazione del bene come testimonianza materiale di civiltà lascerebbe il posto “al desiderio di riunificare, di rimettere a nuovo, di riparare i danni prodotti dal tempo con qualcosa che evochi il passato, pur non potendo essere più quello che era”. La restituzione non è dunque il ritorno al passato, ma esige che il monumento viva nell’attuale e sia testimonianza per l’avvenire. Anche perché, se il fare procedesse dal danno da riparare, la restituzione sarebbe un risarcimento, che parte dal male per compensarlo. L’idea di danno è superstiziosa per eccellenza, perché il danno postulerebbe un’unità, una compiutezza, un’integrità originale poi degradata, per esempio dal tempo, e da riconquistare.
L’integrità non è mai stata, non è nel passato, esige il tempo, è nell’attuale, nel compimento che ignora la degradazione. Il restauro procede per integrazione, ma anche l’impresa, come notano gli imprenditori intervistati in questo numero, per esempio Giovanni Zaccanti, che nota che l’imprenditore non è un posto, ma una funzione essenziale per la città e la società.
Per questa via le questioni: qual è l’apporto che l’impresa offre alla restituzione? E ancor più: che cosa restituisce l’impresa? L’impresa ignora le idee di ricambio, di rimborso, di risarcimento e di ripristino, punta al rendimento, che non è profitto visibile, presente, calcolabile. Che cosa rende l’impresa? Ma anche che cosa rendono il fare, il commercio, la pubblicità, la finanza, se il capitale, le merci, gli strumenti, i prodotti e il profitto sono, più che immateriali, insostanziali?
Questione essenziale quando, come ora, la crisi sembra rappresentarsi come perdita di valore, che dovrebbe essere ripristinato. Ma, come nota Otto Hieronymi in questo numero, per ripristinare occorre rinnovare e il passato – sottolinea Roberto Ruozi – non può essere un modello per l’avvenire.
Il valore dell’impresa non può essere rappresentato, significato, definito dalle perdite in borsa o dalla crisi di mercato che, come concordano questi autori, sono determinate da rappresentazioni psicologiche, emotività, paure. La crisi ha la chance di mettere in discussione un modo sostanziale di rappresentare il valore, il valore come ritorno, il valore del ripristino, il valore della resa. L’impresa non parte da un valore preesistente, lo produce, anche con la trasformazione della cosiddetta materia prima o semilavorata in manufatto, anche lungo il processo di vendita, anche con le scritture contabili, finanziarie, amministrative. Tale trasformazione è traduzione, trasmissione, trasposizione per giungere al valore, non metamorfosi, ovvero passaggio da una forma di valore all’altra, tolta la materia. È una restituzione in qualità perché si tratta di un processo di valorizzazione per astrazione, in cui la materia risulta materia intellettuale.
La rendita dell’impresa, dell’arte, della cultura e del commercio non è il ritorno, ma la restituzione in qualità, in valore intellettuale, cioè insostanziale, perciò perenne. Non è visibile, presente, contabilizzabile: sta nella loro esperienza, che diviene valore per il distretto in cui operano, per la città, per il pianeta. È la chance che esse hanno di restituire non il passato, ma l’avvenire, portando la tradizione a invenzione, la memoria a innovazione, la tecnica a insegnamento. È restituzione di quanto abbiamo ricevuto, ma che non abbiamo mai avuto e che non è mai stato. Restituzione in cifra, restituzione in qualità.
Per questa via, l’Europa può risultare protagonista nel pianeta, e potremmo constatare, come auspica il regista Krzysztof Zanussi, “il ritorno del sogno europeo”.