OCCORRE LASCIARE QUALCOSA CHE CI RAPPRESENTI

Qualifiche dell'autore: 
presidente dell’Ordine degli Architetti della provincia di Modena

Non è facile rappresentare una categoria come quella degli architetti che, dovendo intervenire su un edificio vincolato, sente lunghi brividi alla schiena, e non certo per la difficoltà dell’impegno, ma per il confronto prossimo con la sopraintendenza. Sono consapevole quale conoscenza tecnico professionale comporti un intervento di restauro e come il percorso formativo di alcuni architetti non sempre sia all’altezza del compito assegnato. Ammetto che, accingendomi a leggere il libro di Roberto Cecchi, Il restauro, ho pensato, in modo supponente, che fosse l’ennesimo trattato del “solito professore” che ci racconta quanto sia doveroso conservare. Ma più mi addentravo nella lettura e più riconoscevo allo scrivente la predominanza dell’architetto sul soprintendente. Devo quindi scusarmi con Roberto Cecchi per questo mio sentire pregiudiziale e devo riconoscere che può esserci un punto d’incontro tra architetti e soprintendenza, partendo dalla sua affermazione della variabilità della materia del restauro, perché tanto il bene culturale quanto l’approccio a esso possano variare nel tempo. Sentirsi tra l’incudine e il martello è quotidianità per gli architetti: comuni, soprintendenze e loro regolamenti; imprese, clienti e le loro esigenze, ognuno vorrebbe l’acqua per il suo mulino. Non so se siamo protagonisti di un processo progettuale o soltanto meri esecutori di schematismi consolidati e ormai fuorvianti. Come categoria siamo accusati di essere avvezzi al lamento, ma ritengo che, con possibilità di manovra sempre più limitate dagli adempimenti, il nostro rapporto con le istituzioni si riduca molto spesso a uno scontro, più che a un dialogo. Ritengo che la salvaguardia di un bene, che altrimenti verrebbe abbandonato, passi attraverso un franco confronto tra persone che hanno voglia di ascoltarsi.

Vorrei a questo punto porre sul tavolo della discussione il tema dell’intoccabilità di un’opera architettonica storica e del fatto che la cultura italiana del conservare porti a non vederne la vittimizzazione: molto spesso, il patrimonio che salvaguardiamo è una sequenza di atti di cannibalismo storico, ossia di continui rifacimenti, appropriazioni e riutilizzo di materiale esistente; in altri termini, ciò che noi salvaguardiamo e ammiriamo è di fatto un oggetto con un’identità persa.

Non voglio schierarmi in assoluto con chi sostiene il riutilizzo a tutti i costi del bene storico, solo perché “ha la dimensione” per poter ospitare qualsiasi funzione. Forse bisogna superare questo concetto minimale secondo cui le amministrazioni in generale e gli architetti in particolare tendono a riutilizzare un bene, considerandolo concettualmente sempre trasformabile e arrivando frequentemente a risultati poco armonici, che possiamo riscontrare in alcuni centri storici: uno strano miscuglio tra fare e non fare, anche se, ultimamente, mi sembra stia prevalendo la pratica del disfare. Forse, la domanda principale che dobbiamo porci è come sia possibile lasciare qualcosa che rappresenti l’architettura del ventesimo secolo in ambiti in cui i margini di manovra siano limitati.

Intervenire su un lotto libero, all’apparenza, risulta molto semplice, nessuno vieta alcunché, a parte i regolamenti edilizi naturalmente, mentre assai più arduo è il confronto con l’opera storica dove l’inserimento o l’accostamento di nuove architetture scatena immediatamente il dibattito sull’opportunità o meno di rapportarsi con il passato. All’estero questo è stato fatto, non sta a me giudicare se bene o male. Certamente, se in Italia, e voglio essere assolutamente provocatorio, si fosse proposto d’inserire e/o intervenire in Piazza San Pietro, per esempio, oggi staremmo ancora a disquisire se farlo e come farlo. Credo sia giunto il momento di smettere di parlarci addosso e di osare, finalmente di fare, certamente nel rispetto dell’esistente, ma pensando anche di lasciare qualcosa che rappresenti l’epoca in cui viviamo, qualcosa che ci rappresenti.

Per concludere, vorrei lanciare un’ultima provocazione: ho una certa apprensione per la salvaguardia del patrimonio architettonico che va dagli anni cinquanta al boom economico, certamente all’interno di questo patrimonio ci sono opere di architettura moderna di grande interesse, ma ho qualche perplessità sul contorno a questi edifici; la legislazione attuale chiede di valutare e vincolare, penso che possiamo incominciare a discutere.