IL CIELO, LA MANO, LA CASA

Cercando l’immagine di una casa per il manifesto di questo convegno, La casa. La proprietà, l’investimento, l’accoglienza (Bologna, 29 ottobre 2024), non ero soddisfatto: l’iconografia proposta da Adobe Stock presentava case con giardino, villette in montagna, palazzi e grattacieli. Era tutto bello, ma favolistico, ideale. Quando però ho visto la foto che poi è stata scelta per il manifesto, e che è pubblicata sulla copertina di questo numero, ho capito che era quella giusta: sul cielo stellato si staglia una casa fatta di pixel. Questa casa è sospesa, non appoggiata, sul palmo di una mano, anch’essa di pixel. Il cielo, la casa, la mano. Perché il cielo, perché la mano, se si tratta di casa?
Poiché questo manifesto concerne la presentazione di un libro dal titolo La proprietà sotto attacco, scritto da Carlo Lottieri, potremmo pensare che si tratti di una mano che vuole afferrare la casa, stringerla, costringerla: sarebbe la mano predatoria, la mano che cerca la sostanza, la mano arraffona. Ricordate il film Le mani sulla città di Francesco Rosi? Quelle era no le mani dell’intreccio tra costruttori e politici, le mani del boom dell’edilizia degli anni sessanta. Bei tempi, verrebbe da dire: oggi costruire non si può più, e di boom dell’edilizia proprio non se ne parla. Oggi, invece, le mani sulla casa, sulla città sono quelle della legalità, dell’amministrazione pubblica, della fiscalità: la proprietà è attaccata direttamente dalle tasse e dai vincoli costruttivi e di destinazione d’uso, e indirettamente dalle amministrazioni comunali che lasciano impuniti gli occupanti abusivi e consentono il degrado della città, in particolare delle strade e dei canali, con la conseguente diminuzione del valore delle abitazioni.
Questo processo alla proprietà non è casuale e, come scrive Lottieri, la lotta al diritto di proprietà – che lo stesso Cesare Beccaria citava come “terribile e forse non necessario diritto” – viene da lontano: da Platone, con il suo protocomunismo, dal cristianesimo, con la sua lettura del Vangelo in chiave pauperistica alle origini e anticapitalista ai giorni nostri, dal marxismo, che con Engels condivide l’idea che all’origine ci fosse la proprietà collettiva, per cui quella privata sarebbe stata un furto, un’ingiusta limitazione di essa. Ma anche dall’ideologia ambientalista, che nella sua religione della Natura considera l’edificazione della casa come sfruttamento del suolo e esige che la proprietà sia subordinata alla sacralità di Gaia, la terra come sistema vivente, invenzione del chimico James Lovelock.
Questo naturalismo è un totalitarismo, anche perché è una forma di spiritualismo, e non solo perché è pervaso dall’idea della morte che si riferisce all’idea del nulla. È uno spiritualismo mortifero che pervade anche i pochi saggi filosofici intorno alla casa e all’abitare che spesso affascinano gli stessi operatori del settore. Prendiamo per esempio il famoso saggio del filosofo Martin Heidegger, Costruire, abitare, pensare: “Costruire è propriamente abitare”, scrive, e “L’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra”. Tutto bello, tutto poetico, ma consideriamo, analizziamo quel che si dice: parla di “mortali”, non di cittadini, di individui, di ciascuno, bensì dei morta li. Chi abita? I mortali. E, poi, subito una patina di ontologia: “L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo”. Qui l’abitare non è parlare, fare, scrivere, in breve, vivere, è abitare inteso come soggiorno dei mortali sulla terra. Insomma, tutti a soggiornare, in attesa della morte, tutti a aspettarla nel soggiorno.
E, precisa ulteriormente: “Ma ‘sulla terra’ significa già ‘sotto il cielo’. Entrambi significano insieme ‘rimanere davanti ai divini’ e implicano una ‘appartenenza alla comunità degli uomini’. C’è una comunità originaria entro la quale i Quattro: terra e cielo, i divini e i mortali sono una cosa sola”. Sotto il cielo, come sotto una cupola, gli elementi trovano l’unità. Ecco lo spiritualismo, l’idea di unità, l’idea che l’abitare serva all’appartenenza, all’appartenenza alla comunità degli uomini. La comunità degli uomini. E quale comunità non si fon da sull’appello all’unità, a discapito della libertà? La comunità dei cittadini, la comunità sociale, la comunità religiosa, fino alla umma. Ogni comunità ideale è comunità di spirito, e lo diventa anche la casa, se è vista come custode e rifugio della famiglia, della scuola, del lavoro, come unità spirituale, in nome dell’appartenenza e dell’armonia: una cosa sola, per il bene di tutti.
A Lottieri non sfugge che questi attacchi alla proprietà, che sembrano assume re diverse vesti filosofiche e ideologiche, hanno in realtà un unico denominatore: la conservazione e l’estensione del potere come dominium, sia il potere dello Stato sia il potere dei grandi gruppi finanziari o tecnologici che, anche a proposito dell’ambientalismo, oggi sempre più si combinano con i governi o addirittura ne prendono il posto. “In questo orizzonte – scrive Lottieri – la visione di un mondo amministrato da pochi per il bene di tutti esige la sostanziale cancellazione della proprietà e del mercato, così che è un insieme di imprese semi pubbliche e o semi private che gestisce gli esseri umani dalla culla alla tomba. C’è sicura mente un afflato ideologico in tutto ciò ma è facile scorgere anche una serie di interessi ben precisi”. E, a proposito dell’ecologismo, scrive a pag. 69: “Se l’ecologismo è divenuta la filosofia di comodo dei governanti, dei finanzieri, degli intellettuali e dei maggiori mezzi di comunicazione è perché permette un dominio senza pari”.
Non a caso, trattandosi in questo libro di libertà, che è la base del diritto di proprietà, Lottieri dedica un capitolo all’idea di dominio e dunque di potere. E riprende le teorie del politologo Steven Lukes, del sociologo Alvin Toffler e del linguista Georges Dumezil che a diverso titolo ri tengono che ci siano vari tipi di potere, in particolare quello politico, quello cultura le e quello economico. Questa teoria può sembrare giusta, addirittura ovvia, ma a Lottieri non sfugge che essa, a proposito del potere, gioca sull’equivoco inerente al lessema “potere”, confondendo l’accezione di potere come “essere in condizione di” (per esempio, “finalmente posso compra re quella casa”) con quella di “dominare qualcuno” (per esempio, “posso invadere il tuo paese quando voglio”). In questo modo questa teoria porta a effetti liberticidi: nella sovrapposizione ideologica tra il poter fare e l’opprimere, questi poteri sono presunti pericolosi, e dunque esigerebbero governanti che limitino e controllino non solo la politica, ma l’economia e la cultura. “Per larga parte degli studiosi contemporanei la ricchezza sarebbe un potere per sé e lo stesso varrebbe per la cultura. Dirigismo economico e censura intellettuale sono l’e sito inevitabile di quella lettura del rapporto tra potere e libertà”. Infatti, “in questo modo la sovranità collettiva trarrebbe la sua legittimità e necessità dal compito di contrastare le minacce provenienti dall’economia e dalla cultura, dalla ricchezza e dal pensiero” (p. 46), con “un potenziamento crescente, tendenzialmente illimitato, del dominio politico”, cioè degli interessi di chi vuole controllare ogni aspetto della vita privata, dunque anche della proprietà e del la casa. In pratica, poter costruire e poter abitare la propria casa diventa esercitare una violenza, non un proprio modus operandi o vivendi. Ma per questa via, non solo la proprietà, ma anche la ricchezza e la cultura, l’investimento e la donazione diventano oggetti delle attenzioni, se non degli attacchi, della magistratura asservita all’ideologia, come è accaduto nel processo ad Armando Verdiglione.
E quando non ci sono il legislatore o il magistrato a imporre come costruire e come abitare, ci pensa il filosofo, sempre Heidegger: “La vera crisi dell’abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre in cerca dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare” e “solo chi è realmente capace di abitare può costruire”. Ancora una volta, il filosofo propone prima l’imparare e poi il costruire, prima la capacità e poi il fare.
Ma chi sarebbe capace di abitare? Chi è capace? E allora giova tornare al quesito iniziale: “Perché il cielo, la casa, la mano?”. Perché, con buona pace del filosofo e del suo pensare, la cifrematica, la scienza della parola, constata che la capacità non è del pensiero, ma della manualità, almeno da quando, con i latini, capio è “prendere con la mano”, da cui “capace” e poi “capienza”.
Capio, capire, prendere. La mano nel cielo del manifesto è allora la mano della presa della parola, non sulla parola, mano della presa, non della comprensione. È la mano intellettuale, è la manualità della parola. E allora la mano del costruttore non deve aspettare di imparare a abitare, non deve concettualizzarsi (dall’etimo cum capio). La mano capisce: è la mano della relazione, della costruzione, del funzionamento, dello stile, delle dimensioni. Come abitare senza questa mano? Come intendere senza il fare? E ben prima e ben dopo Heidegger risuona il dire di Giambattista Vico: “Gli umani esistono non perché sono, ma perché fanno”.
Per abitare occorre costruire e fare, non viceversa: per questo avviluppare di lacci e laccioli la proprietà, e la libera impresa che la abita, è mortificare l’abitare, e con essa, la vita. È trasformare l’abitazione nell’abito e nell’abitudine, è edificare la casa sistema, la casa di spirito, la casa morale, la casa come “una forma di addomesticamento reciproco tra cose e persone”, come la vorrebbe il filosofo Emanuele Coccia: la casa morta, nella città necropoli. L’edificio spirituale è l’edificio morto, è l’edificio nel suo valore sostanziale, senza la parola, senza la sua storia e la sua memoria, senza la ricerca e l’impresa. Questo il tabù della casa: la casa dell’omertà in nome della padronanza, la casa del destino ideale, la casa della moratoria dalla vita.
La casa senza tabù è la casa nella parola, nella narrazione del viaggio di ciascuno. In un’estrema distanza da ontologia e esistenzialismo, Armando Verdiglione scrive: “La casa è la dimora del tempo e dell’Altro”. Altra cosa dalla “dimora dell’essere” di cui parla Heidegger a proposito del linguaggio.
Con Verdiglione potremmo intendere che si tratta di “dimora del tempo” perché la casa è sempre in avvenire e in divenire, con il tempo che non si rompe e non si spezza, con il tempo dell’industria e dell’ingegno. La casa che non si addomestica, la casa dunque senza rimandi e aspettative, senza rimpianti e rassegnazione.
È “dimora dell’Altro” proprio perché procede dal cielo, dove la mano intellettuale l’ha incontrata. Procede dal cielo, non fa sistema con il cielo, “cielo sopra, terra sotto”, come voleva Heidegger. “Cielo sopra, terra sotto” è già la gerarchia sociale, è la società spirituale, senza l’Altro. È la casa genealogica, che serva per i figli, per fondarli e radicarli. È la casa senza l’ospite che non sia già noto, presa tra esclusione e inclusione. La casa che procede dal cielo è la casa che procede dall’apertura, non dalla linea e dal lignaggio, che sono pensati per escludere l’Altro, la differenza e la varietà. La dimora dell’Altro è la casa che, procedendo dal cielo, è la casa in viaggio: la casa dell’investimento e della donazione, la casa dell’invito e dell’incontro, dello scambio e del piacere come approdo. In questa casa la comunità non è spirituale, ma pragmatica, perché è la casa dell’impresa, della poesia e della politica, politica dell’ascolto, con la sua accoglienza e la sua ospitalità. L’ospitalità non è sacra, è pragmatica, temporale: l’abitare esige la cura del tempo, non il prendersi cura dell’essere.