LA BATTAGLIA PER LA PROPRIETÀ È UNA BATTAGLIA PER IL DIRITTO

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saggista, docente di Filosofia del diritto (Università Telematica Pegaso)

Il mio ultimo libro, intitolato La proprietà sotto attacco (edito da Liberilibri), non tratta specificamente la proprietà immobiliare, ma la proprietà in senso lato. Nel titolo si evoca l’esigenza di operare a difesa della proprietà. Perché mai, nel 2024, si dovrebbe però difendere la proprietà?

Di ragioni ve ne sono tante. Grazie alla Confedilizia, che anni fa mi chiese di curare un libretto costruito a partire da talune frasi in difesa della proprietà (da Aristotele fino ai contemporanei), mi è già capitato di sviluppare vari argomenti a difesa della proprietà. In Aristotele l’argomento ruota intorno all’efficienza, dato che nella Politica lo Stagirita sostiene che di ciò che è di tutti non si prende cura nessuno. La tesi è che le proprietà collettive producono un processo di deresponsabilizzazione.

Un altro argomento ce lo fornisce un importante esponente della Seconda Scolastica, Domingo De Soto, per il quale “la virtù della generosità, fondamentale per un cristiano, implica la proprietà”. Se una persona non è proprietaria di nulla come può essere generosa? In fondo, anche San Francesco ha potuto abbandonare i propri beni perché erano suoi.

Più vicino a noi, Friedrich von Hayek – che ottenne il premio Nobel per l’economia nel 1974 – legittimava la proprietà a partire dall’idea che per avere una società pluralista, nella qua le vi siano diverse visioni del mondo che si confrontano, è necessario che la proprietà non sia interamente in mano allo Stato. Un ordine plurale esige quindi che esista la proprietà privata e che ciascuno possa – se lo vuole – aprire una libreria, una casa editrice, un giornale e via dicendo.

Il suo maestro, Ludwig von Mises, utilizzò un altro argomento a difesa della proprietà. Quando nel 1917 interviene il colpo di stato in Russia, quando cioè i bolscevichi uccisero la rivoluzione e presero il potere, ragionando su quale potrà essere l’ordine politico ed economico che prenderà piede in quella che poi diventerà l’Unione Sovietica, egli sottolineò come il collettivismo avrebbe prodotto un disastro economico senza limiti, dato che l’assenza di proprietà avrebbe comportato il venir meno dei prezzi di mercato. In effetti, la proprietà è la condizione perché ci siano scambi e quindi prezzi di mercato: se invece non disponiamo delle informazioni dei prezzi, non sia mo in grado di sapere cosa dobbiamo produrre e in che modo. Senza prezzi di mercato, sottolineò Mises, il sistema sarebbe crollato, ma tutto ciò sarebbe derivato dall’abolizione della proprietà privata.

Nella storia della civiltà europea troviamo quindi tantissimi argomenti usati per difendere, giustificare e proteggere la proprietà. Quello che utilizzo nel mio libro è un forse po’ differente dagli altri. La mia tesi è che non possiamo riflettere sul diritto se sospendiamo, annulliamo e mortifichiamo un istituto come la proprietà. Da sempre la proprietà è il pilastro centrale di un ordinamento giuridico che voglia definirsi tale, perché in definitiva ciò che è di mia proprietà è ciò che io posso fare, mentre ciò che è di proprietà altrui è ciò che io non posso fare. Di conseguenza la proprietà definisce confini fondamentali: sia in senso fisico, sia in senso concettuale. Nel momento in cui la proprietà viene svilita (cercherò poi di evidenziare in che senso io ritenga che la proprietà sia svilita fino a essere svuotata), è chiaro che il diritto finisce per essere mortificato.

A quel punto non siamo più in un ordine giuridico, perché la proprietà è stata messa da parte: è stata calpestata come istituto giuridico e come realtà economica. Se qualcuno di voi avrà voglia e tempo di leggere questo mio testo, che è abbastanza semplice, capirà che sostanzialmente è un testo contro lo Stato. In effetti l’attore fonda mentale della dissoluzione del diritto è lo Stato moderno: un’entità che si è definita grosso modo cinque secoli fa e che progressivamente ha ridimensionato il diritto, annullando la libertà individuale e quindi la proprietà, fino al totalitarismo soft del nostro tempo.

La proprietà sotto attacco è quindi un testo contro lo Stato e in difesa del diritto. Forse qualcuno rimarrà sor preso dinanzi a ciò e si chiederà come sia possibile scrivere contro lo Stato e al tempo stesso in difesa del diritto. Il diritto non è forse un prodotto dello Stato? La mia tesi, condivisa peraltro da molti, è che le cose non stiano così. Non solo il diritto ha una vita autonoma, ma per giunta il trionfo dello Stato comporta quella che potremmo definire anarchia giuridica, quale si esprime nell’arbitrio di chi in ogni momento può fare e disfare il diritto.

In effetti quando la tradizione europea ha accettato la nozione di sovranità, siamo entrati in un regno di totale licenza, dato che siamo in balia delle decisioni dei legislatori. Se ci pensate, non è forse questa la situazione in cui ci troviamo, poiché non sappiamo do mani che utilizzo potremo fare davvero della nostra abitazione o di qualsiasi altro nostro bene? Quante risorse deciderà di sottrarci il ministro dell’economia? Cosa decideranno i ministri che si occupano della casa? Quali regole introdurrà l’autorità comunale?

Mentre c’è un legame diretto e fortissimo tra il diritto di proprietà e la libertà – perché la proprietà è lo spazio in cui posso muovermi legittimamente e in cui ho diritto di tenere al di fuori gli altri – è evidente che il potere statale rivendica per sé la licenza di disporre di tutto. Ecco perché prima ho usato questa formula forte, anarchia giuridica, per indicare quella situazione in cui proprietà e diritto declinano mentre s’afferma l’arbitrio dei governanti.

Questa licenza è l’opposto della libertà, dal momento che si basa sulla disponibilità assoluta di ogni bene e diritto altrui. Mentre la proprietà vive di confini e limiti, la licenza di quanti comandano rinvia a un arbitrio asso luto. Non a caso nel diritto si parla dell’onnipotenza del legislatore: poi ché chi s’è impadronito del diritto ha la possibilità di fare qualunque cosa: espropriare i nostri beni, decidere – abbiamo visto anche questo – che non possiamo entrare o uscire dalla nostra casa in taluni orari, che non possiamo trasferirci in una casa di villeggiatura (perché magari si trova in una regione diversa da quella di residenza), e via dicendo. Perfino le peggiori assurdità diventano realtà quando s’impone il principio fondamentale dell’onnipotenza del legislatore, strettamente legato allo Stato moderno e che non ha nulla a che fare con l’autentica tradizione giuridica.

In questo momento storico tutti noi siamo vittime di una progressiva espansione del potere statale che un po’ alla volta, quasi in maniera inavvertita, ha totalmente svuotato il diritto, depotenziandolo. Siamo insomma vittime di quella che ho chiamato l’anarchia giuridica, ossia dell’arbitrio di colui che governa: in tal modo alcune persone – i membri della classe politica – dispongono di una libertà illimitata, che consente loro di violare tutti i nostri diritti. Perché deve essere chiaro a tutti che, al di là delle formule astratte (“il legislatore”, “l’ordinamento”, “la legge”, ecc.) noi siamo sempre sotto il controllo di persone precise.

Va aggiunto, comunque, che la classe politica non si compone solo degli uomini politici. Questa nozione di “classe politica”, che si deve a Gaetano Mosca (che ha comunque mutuato il termine “classe” dal marxismo), rinvia al fatto che in ogni società c’è un gruppo ristretto di persone che dispone degli altri. Questa élite è composta dai politici di professione, ma anche da intellettuali, imprenditori, giornalisti, ecc. Tanto per fare un esempio a tutti noto, è evidente che nel corso del Novecento la famiglia Agnelli ha sempre fatto parte della classe politica, anche se solo in modo molto marginale e limitato ha avuto spazio nelle aule parlamentari e nei governi.

Correttamente intesa, la classe politica è quella che con la propria azione può decidere del destino della nostra libertà e dei nostri beni. Bisogna aver ben chiaro che tutto questo avviene perché nelle università e nel mondo della cultura le idee che condividiamo in tema di proprietà non hanno spazio.

Nella mia analisi utilizzo un volume che reputo importante, non già perché ritenga fondate le tesi che in esso sono espresse, ma perché è rappresentati vo del nostro tempo e del declino del diritto. Si tratta di The Myth of Ownership, scritto nel 2002 da Liam Murphy e Thomas Nagel. Gli autori si chiedono quando, se e in che misura sia legittima l’estrazione di risorse operata dai governanti attraverso l’imposizione fiscale. Esiste un limite che non va oltrepassato? Esistono condizioni che rendono legittimo un prelievo fiscale?

Un pensatore libertario, Robert Nozick, trattando la tassazione dei redditi da lavoro in Anarchy, State, and Utopia sostenne, e a ragione, che si trattava di una forma di lavoro forzato. Che differenza fa, in effetti, se mi mandano sei mesi a lavorare in fabbrica o in ufficio, oppure se con l’imposizione fiscale mi sottraggono il reddito di sei mesi? Dal punto di vista analitico, disse Nozick, la tassazione è assimilabile al lavoro forzato. Certamente è vero che l’apparato degli estrattori di risorse è composto da persone accorte: essi sanno che una tassazione invisibile (ad esempio alla fonte o indiretta) è molto più accettabile per ognuno di noi rispetto all’eventualità di essere mandati a lavorare in un qualsiasi ufficio.

Nagel e Murphy, invece, afferma no che ogni analisi di questa natura è insensata, dato che a loro giudizio la proprietà sarebbe un “mito”. In effetti essi adottano una prospettiva cara al positivismo giuridico (e agli stessi uomini di potere), e cioè affermano che diritto sia solo quello che i legislatori impongono, ovvero ciò che è deciso dalla classe politica. Se l’ordinamento è da ricondurre alle leggi e solo a quelle, ne discende che noi siamo proprietari perché ci sono alcune leggi, perché c’è un codice, perché c’è un catasto e tutta una serie di altri apparati statali che stabiliscono entro quali limiti, e in riferimento a quali titoli, noi siamo proprietari.

La tesi centrale di quel libro del 2002 è quindi che sarebbe lo Stato, ossia la classe politica, che ci farebbe proprie tari tramite l’ordinamento. Ma essi aggiungono che dell’ordinamento fanno parte anche le norme tributarie, ossia quelle regole che legalizzano il processo che toglie a Tizio per dare a Caio.

Alla fine, è l’ordinamento (di Stato) che introduce la proprietà e che, al tempo stesso, quando lo ritiene opportuno la svuota. Se è il medesimo Stato che dà e toglie, entro questo quadro filosofico-politico non esiste alcuna possibilità di considerare illegittima (né sul piano giuridico, né sul piano morale) qualsivoglia forma di esproprio.

La stessa regolazione della proprietà è legata al fatto che lo Stato ti riconosce sì proprietario, ma poiché ognuno di noi ha qualcosa soltanto in virtù dell’ordinamento ogni nostra proprietà può essere in ogni momento ridefinita dalle leggi stesse, che stabiliscono in che senso tu sei proprietario. Per evocare un caso assai noto, il fatto che in certe città un proprietario possa affittare la propria casa solo sei mesi per affitti brevi discende esattamente da questo. A ben guardare, il testo di Nagel e Murphy conferma quello che molti avevano già intuito, e cioè che entro la cultura egemone del progressismo globale quanti comandano – gli uomini di Stato – possiedono tutto, dato che possono stabilire le condizioni e i limiti del nostro essere proprietari.

C’è un termine francese che spiega questa condizione: octroyé. Un diritto è ottriato, come viene tradotto in italiano, quando è concesso dall’alto, quando è soltanto una gentile elargizione del sovrano. Chi è sovrano ci concede la possibilità che quella casa sia nostra. E, d’altro canto, è assai significativo che ormai si tenda a mettere sullo stesso piano – e solo in parte la cosa è ragionevole – un taglio delle imposte e un sussidio. Perché avviene questo? La ragione è che sul piano della contabilità meno imposte o più soldi pubblici sono la stessa cosa. Per esempio, è un po’ la stessa cosa se lo Stato riduce le tasse del 3%, e mi fa risparmiare 10.000 euro all’anno, oppure se mantiene inalterate le imposte e mi versa 10.000 a fondo perduto.

Se noi oggi consideriamo allo stesso modo la riduzione dell’esproprio operato dalla classe politica e l’incasso di soldi tolti ad altri, è evidente che qualche quadro giuridico e morale fondamentale è stato modificato in maniera assai netta. In sostanza, abbiamo dimenticato che esistono diritti originari, prepolitici, naturali e inviolabili (a partire dall’autoproprietà, che non è certo una concessione del sovrano di turno). Venuti meno quei diritti basilari, tutto è oggi subordinato all’arbitrio di una classe politica di Stato che è del tutto anarchica nel suo decidere, e può modificare qualunque cosa secondo i propri interessi e i propri orientamenti.

Ripercorrere a ritroso la storia può aiutarci a comprendere molte cose.

Dal momento che siamo tutti in qual che misura preda dell’imperialismo del presente, dato che siamo portati a ritenere che questo sia l’unico mondo possibile e che le cose siano sempre andate così, esaminare le civiltà che ci hanno preceduto aiuta a relativizzare il mondo in cui viviamo. La storia delle istituzioni e del diritto ci aiuta a capire che il mondo in cui viviamo è solo una tra le molte possibilità che avremmo potuto conoscere. Con il trionfo della sovranità, alla fine dell’età medievale, l’Occidente ha iniziato a percorrere una strada che ha consegnato l’intera società nelle mani dei governanti e che ci sta trascinando nell’abisso.

In effetti, prima che lo Stato moderno s’imponesse, le cose erano assai diverse. Ai principi non era consentito violare il diritto e sottrarre le risorse altrui. La scena muta in modo radica le, tra il XVI e il XVII secolo, quando sul piano dei fatti (si pensi alla Francia del Re Sole) e su quello delle idee (si pensi a Thomas Hobbes) l’assolutismo impone le proprie logiche.

Nella fase storica che separa l’ordine giuridico medievale e lo Stato moderno, non a caso, l’Europa conobbe quel modello istituzionale (lo Stato dei ceti) che era caratterizzato dalla presenza di un principe che certamente ambiva a diventare un sovrano assoluto, ma che non era in grado di farlo. Quel monarca, che non aveva né la forza né la legittimità per estrarre le risorse altrui, doveva consultare quelle assemblee che riunivano i rappresentanti del clero, della nobiltà e della borghesia. Queste forme embrionali di parlamento servi vano per discutere a che condizioni e con quali obiettivi i diversi gruppi sociali fossero disposti a partecipare alle spese del regno (necessarie, in genere, per iniziative militari).

Quell’equilibrio tra re e parlamenti venne meno quando le assemblee non furono più convocate. È in quel momento che il re si ritenne in grado di tassare senza bisogno di alcuna mediazione e senza bisogno di negoziare alcunché. A quel punto le istituzioni monarchiche divennero sovrane e fu così che ogni proprietà divenne del tutto espropriabile. Con la modernità politica, e l’apoteosi di tutto questo s’è avuto nel Novecento, la proprietà e la libertà sono progressivamente declinate, mentre la sovranità del potere s’è dilatata. Il trionfo dello Stato ha liberato da ogni vincolo quanti ci governano.

A tale proposito è quanto mai significativo quel detto americano secondo cui “ogni volta che il Parlamento è riunito, le libertà e i diritti sono in pericolo”. La formula intende ricorda re che quanti si riuniscono in taluni Palazzi rivendicano il privilegio di fare e disfare il diritto; di conseguenza, essi possono violare i nostri diritti naturali e lo stesso ordine naturale delle cose. Essi possono farlo perché ormai si sono insignoriti sopra di noi. La battaglia per la proprietà, di conseguenza, è soprattutto una battaglia per il diritto e contro l’anarchia del ceto politico, contro l’arbitrio e la licenza di chi pretende di voler fare di noi qualunque cosa.

Naturalmente, da quanto s’è detto emergono alcune conseguenze. Per esempio, è chiaro come il degrado economico sia un sottoprodotto di questa impostazione: una società senza diritto è una società in cui gli incentivi a lavorare e intraprendere vengono meno. Lasciando allo Stato la totale disponibilità del nostro lavoro, del nostro risparmio e dei beni ereditati dai nostri genitori si finisce consegnare al ceto politico la totale disponibilità di noi stessi. Siamo a disposizione dei governanti: il biennio pandemico è stato particolarmente eloquente, ma è stato solo un episodio particolarmente estremo entro un quadro assai coerente. Ognuno di noi è pronto ad accettare che in una casa ci sia qualcuno che la governi e si occupi dei suoi oggetti, ma al tempo stesso siamo tutti portati a ritenere aberrante che qualcun altro voglia governarci come fossimo oggetti.

In queste logiche, che ormai sono generalmente accettate al punto che ci appaiono autoevidenti, abbiamo perso il senso dell’alterità e della trascendenza dell’Altro. Abbiamo dimenticato che non possiamo usare violenza nei riguardi di un innocente, perché una cosa è resistere dinanzi a chi ci aggredisce o esigere che raddrizzi il torto chi compiuto crimini, ma del tutto diverso è avanzare la pretesa di dominare e governare persone che non hanno fatto nulla di male. Questa costante aggressione a danno di innocenti evidenzia una cosa che, tra le righe, suggerisco nel mio libro: il fatto è che siamo arri vati a questo punto perché siamo nel cuore di una grave crisi spirituale, di un collasso morale, di una spiacevole mutazione antropologica. O recuperiamo tutta una serie di valori oppure diritto e proprietà non avranno più alcuno spazio.