L’IMPRENDITORE: LA VERA PROPRIETÀ SOTTO ATTACCO

Questo numero della rivista pubblica gli interventi del dibattito suscitato dal libro di Carlo Lottieri, La proprietà sotto attacco (Liberlibri).
A partire dalla sua funzione di vice presidente nazionale di Piccola Industria Confindustria, lei ritiene che anche l’impresa in Italia stia divenendo una proprietà sempre più esposta agli attacchi provenienti da varie parti della società civile?
Allo scorso Festival dell’Unità di Bologna sono stato invitato a intervenire – come unico imprenditore in un parterre di rappresentanti sindacali – intorno al tema del lavoro e ho fatto una premessa che mi è parsa essenziale: per avviare un dibattito su questo tema dobbiamo cambiare approccio, non possiamo parlarne sempre come se fossimo schierati sui tavoli opposti di una trattativa. Il ragionamento dei sindacalisti presenti partiva dal dato inconfutabile che gli stipendi dei di pendenti sono troppo bassi, e quando si parla di stipendi bassi si parla automaticamente di ridistribuzione delle risorse. Ma il tema del lavoro nella sua globalità è condizionato da molte altre variabili come i costi di produzione, gli investimenti, le competenze dei collaboratori, le tasse e tutto ciò che influisce sulla determinazione della retribuzione. Anche gli imprenditori constatano che i propri collaboratori fanno fatica ad arrivare a fine mese, perché hanno perso parecchio potere d’acquisto. Ma perché è accaduto questo? Per una questione interna di domanda e offerta di mercato, per cui c’è un problema di distribuzione del reddito, o perché abbiamo importato questa inflazione dall’aumento del costo dell’energia e delle materie prime? È proprio così: abbiamo ridotto il potere d’acquisto perché abbiamo pagato l’energia molto più di qualche anno fa. Ma, a fronte di questo problema, quale politica energetica stiamo facendo insieme? Siamo dalla stessa parte se parliamo di energia nucleare? Siamo dalla stessa parte se parliamo di adeguamento delle infrastrutture, argomento che non piace a nessuno? Guarda caso, indipendentemente dal colore delle amministrazioni pubbliche, quando si enuncia la proposta di realizzare un’opera pubblica – che sia un ospedale, una scuola o un termovalorizzatore – regolarmente, insorge l’opposizione di turno. E parliamo di un’altra cosa che odiano tutti, il cuneo fiscale, che però è necessario perché le tasse servono a garantire i servizi ai cittadini. Ma siamo sicuri che tutti gli uffici pubblici che spesso rallentano le nostre attività e la nostra libera iniziativa servano veramente ai cittadini, che per giunta pagano di tasca loro? Possibile che non riusciamo a fare una spending review come si deve ed eliminare gli enti inutili, che non producono alcun valore aggiunto per la nostra comunità? Questo è un altro terreno su cui dobbiamo lavorare insieme. Oppure proteggiamo il lavoro a prescindere, difendiamo anche il lavoro non produttivo, che rende inefficiente tutto il sistema e tutti noi più poveri? Non sto dicendo di licenziare chi finora è stato impiegato in questi enti, ma di trovare per ciascuno una nuova funzione, dopo un eventuale corso di formazione, se occorre.
Nel mio intervento al Festival ho esplorato almeno dieci fattori che influiscono sulle retribuzioni e ho avanzato l’esigenza di aiutare i sindacati a prenderne atto, in modo da collaborare con le imprese e costituire un fronte comune per il lavoro. Occorre affrontare insieme alcuni problemi pragmatici, anziché continuare a parlare di politica industriale in termini astratti, quando invece avremmo bisogno di potenziare le infrastrutture (interporti, strade, ferrovie, aeroporti) e di avere una scuola e un’università che siano collegate con il mondo del lavoro e una sanità efficiente, in modo che un dipendente – che guadagna 1500-1800 euro al mese e non può permettersi di rivolgersi ai servizi privati – non debba aspettare sei mesi per fare una tac. La “politica industriale” tutt’al più può essere adottata in un paese autarchico, dove c’è chi pianifica e decide che cosa si mangerà nei prossimi anni, che tipo di auto e di detersivo si userà, e così via. In un paese civile non abbiamo bisogno di piani quinquennali, semmai di una politica infrastrutturale, che metta i cittadini nelle condizioni di vivere e di esprimere la massima spinta verso lo sviluppo economico della società. La vera politica industriale è un adattamento continuo alle possibilità che offre il mercato globale. Qualche decennio fa, chi costruiva un motocoltivatore, per esempio, riusciva a produrre tutti i componenti in casa, perché la tecnologia era più semplice. Oggi invece il motore magari viene importato dalla Cina, perché ha un prezzo che lo rende più competitivo, così il costruttore può focalizzarsi sul lo sviluppo di altre caratteristiche di utilizzo. Se invece i nostri costruttori cercano di fare tutto in casa, non vendono più i loro motocoltivatori, perché non sono competitivi. Inoltre, se in un paese come il nostro, che è il quinto esportatore nel mondo, chiudiamo con i dazi i mercati in entrata, importiamo inflazione, perché oggi l’80% delle medie imprese esporta l’80% della produzione. E questa è la ragione per cui paesi come la Turchia stanno crescendo, perché non hanno vincoli in entrata.
Quindi “politica industriale” è una brutta espressione perché dà l’illusione che lo stato possa governare il futuro, mentre nessuno è in grado di governarlo, se non l’individuo. Ecco perché è vero che il secolo sarà americano, come sostiene Francesco Costa, vincitore del Premio Estense 2024 con il libro Frontiera. Perché sarà un nuovo secolo americano (Mondadori). Lo condivido in pieno, perché la ricetta è ancora quella che mi convince di più: l’America è un grande paese che regola soltanto quattro cose, ma quelle quattro le regola di santa ragione, e per il resto lascia che i cittadini sviluppino l’economia, senza ingerenze da parte dello stato.
Nel Vecchio continente, invece, le ingerenze della politica sono tali che ne stanno pagando le conseguenze milioni di persone che hanno perso il lavoro nel settore automotive…
Sì, l’approccio ideologico all’ecologia è l’emblema più assurdo del grado d’invasività della nostra politica, che ha sbagliato a definire l’auto elettrica come “la soluzione”: se il problema era il riscaldamento globale, bastava dare l’obiettivo della riduzione della CO2 del 50%, lasciando neutralità sulla tecnologia che ciascun paese membro decideva di adottare per raggiungerlo (elettrico, biofuel, idrogeno, ibrido, termico di nuova generazione). Invece, la politica ha voluto dire qual era la tecnologia giusta rispetto alle altre e, mettendosi davanti alla scienza, ha compiuto il primo errore. Il secondo l’ha compiuto quando ha scelto una strada in cui l’Europa era del tutto carente: non aveva né le materie prime né la tecnologia per produrla, e neanche gli impianti per generare energia verde e le infrastrutture per distribuirla. Quindi, prima ha stabilito che i cittadini dovevano usare le auto elettriche e poi che dovevano installare il fotovoltaico per produrre l’energia necessaria a farle viaggiare.
Un approccio pragmatico concreto, invece, è quello di un’industria come la Toyota, che non ha mai scommesso nell’auto elettrica come unica soluzione, senza però divenire partigiana del motore termico. Anzi, l’amministrato re delegato in una recente intervista ha affermato che il futuro non è il termico, ma la tecnologia mista, a seconda delle esigenze: l’elettrico si userà per brevi percorsi e piccoli veicoli, per quelli medi si useranno i mezzi ibridi e per quelli lunghi i veicoli a idrogeno. E, quando l’amministratore delegato di un grande gruppo fa queste affermazioni, vuol dire che non è solo un’opinione o un sogno, ma la descrizione di una realtà che fa già parte del suo progetto e del suo programma, e le sue strutture produttive saranno trasformate per rispondere a questo scenario.
Questo è l’approccio di cui abbiamo bisogno per il rilancio della nostra economia, anziché scoraggiare l’iniziativa privata in tutti i modi. A volte penso che la vera proprietà sotto attacco – per tornare alla sua domanda iniziale – sia l’imprenditore.
In che senso?
La crisi attuale ci fa capire ancora di più quanto sia importante che nascano nuovi imprenditori e nuove imprese, perché un nuovo imprenditore porta una nuova idea. Inoltre, se non c’è un sufficiente ricambio generazionale, le imprese rischiano di essere assorbite da fondi internazionali che, a un certo punto, una volta spremuto il limone, sputano l’osso. La nascita di nuove imprese comporta anche l’immissione sul mercato di nuovo capitale di rischio, perché questo è il punto chiave: mai come oggi ci rendiamo conto di questo problema che, nel medio e lungo termine, diventa assoluto. Basti pensare che le ultime grandi invenzioni dal punto di vista tecnologico nel nostro paese sono state sviluppate tra gli anni cinquanta e settanta: Olivetti nell’elettronica, Zanussi negli elettrodomestici, Fiat nei trasporti – nella meccanica de gli automezzi aveva prodotto tanti brevetti, come il common rail, che è nato in uno stabilimento Fiat in Puglia e poi è stato svenduto alla Bosch – e Mattei che aveva fatto nascere una filiera dell’energia in Italia. Nelle innovazioni degli ultimi vent’anni, invece, non siamo protagonisti, e quasi mai lo è l’Europa: le prime dieci grandi aziende che producono elettronica e software, auto elettriche e commercio elettronico sono nate tutte in America, nessuna in Europa. Questo perché non abbiamo imprenditori. E non è una questione di capitale iniziale: Elon Musk, Bill Gates e Steve Jobs non erano figli di grandi industriali, sono partiti da zero con un’idea innovativa e sono cresciuti in un ambiente fertile che ha permesso alle loro aziende di raggiungere dimensioni gigantesche.
Oggi la difficoltà di fare impresa in Italia è immensa perché i lacci e i lacciuoli sono infiniti e scaricano sul privato responsabilità di qualsiasi ge nere, anche con risvolti penali. Ma se continuiamo ad aggiungere controlli e pene a carico degli imprenditori, allontaniamo sempre più la possibilità che nascano nuove imprese, perché l’imprenditore finisce per essere considerato un “disgraziato”, che non ha scampo: se succede qualcosa di male è colpa sua, se le cose riescono è solo un fortunato, se fallisce è considerato uno che ha sbagliato tutto. Ma in un mondo così veloce e così connesso dobbiamo pensare prima di tutto che la crisi aziendale non è più così straordinaria, e dobbiamo intervenire in termini di continuità sia nelle procedure che fanno capo al tribunale sia nelle azioni di controllo della crisi per il rilancio dell’attività. Occorre affrontare la crisi aziendale con un approccio che deve essere continuativo e, soprattutto, molto veloce, perché tra gli asset da valorizzare non ci sono soltanto macchine e capannoni, ma anche il capitale di rischio e l’imprenditore, perché l’imprenditore senza capitale di rischio non fa niente e, viceversa, il capitale di rischio senza l’imprenditore è inutile. Anche per questo dobbiamo aiutare i giovani ad accedere al credito – cosa che attualmente risulta quasi impossibile nella maggior parte dei casi – per promuovere la nascita di nuove imprese.
Quindi, il mondo cambia, c’è bisogno di nuove imprese, di nuovi servizi, di nuovi sviluppi e purtroppo invece tantissime aziende stanno invecchiando senza avere costruito una successione generazionale, che non si fa in due o tre anni, ma ci vogliono decenni per farla bene, quindi le basi vanno poste molto presto.