NESSUNA CASA SENZA AMBIZIONE

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente di Santo Stefano Immobiliare, Bologna

A proposito del titolo di questo numero della rivista, La casa. La proprietà, l’in vestimento, l’accoglienza, la proprietà privata è stata spesso identificata con il risultato dell’“ingiusto profitto” ricava to dallo “sfruttamento capitalistico della forza lavoro”, quanto meno a partire dalla pubblicazione del Manifesto del partito comunista (1848). Chiaramente, Marx e Engels si fondavano su un’idea di sto ria come scontro fra classi sociali, ovvero, negavano la forza della cultura che è alla base di ciascuna trasformazione e, in particolare, negavano il rinascimento, quello straordinario movimento intellettuale da cui è sorta la società moderna.

Ma è possibile che il tabù del profitto insito nell’ideologia marxista abbia esteso i suoi effetti all’epoca attuale, portando mol ti giovani ad allontanarsi dall’impresa e dal lavoro nei paesi occidentali?

È una domanda molto complessa, ma sicuramente la figura dell’imprenditore è sempre stata circondata da pregiudizi. Sul mio libro di storia del liceo l’imprenditore era definito una figura arcaica votata all’accumulo di capitale, non qualcuno che rischia del proprio in un’attività che richiede il suo impegno sei giorni su sette per dare lavoro ad altri. Questo vale anche per chi riesce in ambiti come lo sport, per esempio, dove si parla soltanto dei massimi campioni oppure di quelli che vincono grazie al doping, ma nessuno dice quanta fatica e sforzo hanno impiegato gli altri milioni di atleti che si allenano per ottenere risultati eccellenti. I modelli proposti tanto dai media quanto dai social trasmettono un’idea di facilità, in cui la riuscita non è frutto d’impegno e di costanza, anzi, sembra che sia dovuta soltanto alla bella faccia di chi è portato in auge. Quindi sta sparendo l’idea di fare fatica per guadagnare.

A questo si aggiunge l’operato delle multinazionali che hanno contribuito a sfalsare il ruolo dell’imprenditore attraverso l’abbinamento alla finanza, che consente guadagni stratosferici, senza alcuna logica, spesso realizzati da pochi attori, per giunta non imprenditori. Marx non aveva previsto che la finanza sarebbe diventata un setto re industriale a sé, che non ha più lo scopo di supportare l’impresa, ma è un sistema che produce utili per conto proprio, anzi, a volte evitando il coinvolgimento dell’industria.

Quindi, evviva il capitalismo: senza il capitalismo non esiste l’economia, ma non dobbiamo dimenticare il rispetto per il cliente, perché, se applichiamo un sovra margine nella vendita di un prodotto, c’è qualcuno che piange.

Si riferisce alla “filiera del rispetto” adottata da Carrera, che offre il meglio della qualità a un prezzo rispettoso per cliente: “non il primo prezzo, ma il prezzo giusto, quello che consente a tutta la filiera di andare in Golf e al consumatore di acquistare senza un sovrapprezzo”, come lei ricordava nel numero precedente della rivista?

Il tenore di vita che la maggior parte delle persone vorrebbe mantenere oggi è insostenibile per uno stipendio medio. Una volta era l’abbigliamento a distinguere gli individui di vari ceti sociali, poi è stato il telefonino, adesso sono le vacanze: tutti devono fare le vacanze nella spa. È un problema complesso per il quale non esistono ricette o soluzioni facili, le lobby sono tante e ciascuna tira un pezzo di coperta dal la propria parte. Tuttavia, lo stipendio non è più adeguato alla qualità di vita che ci ha imposto il mercato, non che abbiamo avuto voluto noi, ma che il mercato ha imposto a una famiglia che vuole definirsi moderna. Gli stipendi sono fermi da decenni nel nostro paese, che si colloca al decimo posto dei diciassette paesi dell’Eurozona presi in considerazione dall’ultimo Salary Outlook dell’Osservatorio JobPricing.

Che cosa pensa invece della propensione dei giovani a intraprendere nuove attività e a inventare nuovi mestieri?

Molti giovani purtroppo hanno paura delle difficoltà insite nel fare impresa, soprattutto del carico di burocrazia che un’attività deve affrontare prima ancora di essere avviata. Inoltre, l’idea che le tecnologie possano sostituire il lavoro dell’uomo non aiuta: le nuove generazioni sviluppano molte più capacità intellettuali rispetto alle prece denti, perché hanno molti più stimoli, ma non hanno direzione, pensano che con la tecnologia si possa fare qualsiasi cosa, poi rimangono stupiti perché non tutto si risolve con l’automazione: per esempio, se un cliente non paga, bisogna chiamarlo, non basta l’alert inviato dall’intelligenza artificiale. Questo li destabilizza, perché non capiscono quale sia il percorso migliore da seguire e spesso ripiegano in corsi universitari generici che non li aiutano a definire il loro profilo in uscita.

Tornando alla domanda sulla pro pensione al rischio, nonostante siano aumentati gli strumenti a disposizione delle nuove generazioni, tanti giovani arrivano da famiglie che non si sono mai trovate nel rischio d’impresa per ché comunque avevano una proprietà, diversamente dalle generazioni che uscivano dalla guerra che non avevano niente da perdere, per cui si sono rimboccate le maniche per ricostruire l’Italia. Ecco perché l’Asia ci mangia. Mia nonna mi diceva: “Guarda che tu non sconfiggerai mai un disperato, perché ha più fame di te, ci mette molta più forza e non ha niente da perdere”.

Lei è appena tornato dalla Cina…

La Cina ha un miliardo e mezzo di persone che ragionano più o meno allo stesso modo, giusto o sbagliato che sia: lavorano a testa bassa, sono molto veloci e seguono una disciplina ferrea. I cinesi sono abituati anche a vivere con niente, come i russi, che hanno una capacità di resistenza in credibile, perché hanno vissuto de cenni in cui non avevano niente. Sono culture e popoli molto diversi da noi che ormai non siamo più disposti a sacrificare ciò che abbiamo conquistato. Per questo l’India e la Cina ci mangiano, e l’Europa è insignificante per loro: trecento milioni di persone sono bazzecole. Cina, ma anche India, sono economie che possono contare su centinaia di milioni di persone analfabete alle quali possono affidare i lavori più umili, pesanti, pericolosi e ripetitivi che in Europa nessuno vuole più fare. Quindi pian piano, con gli anni, la nostra dipendenza da questi paesi e da queste industrie (e prodotti) è diventata sempre più importante, tanto che in molti settori, se mancasse la Cina, noi non avremmo i prodotti che consumiamo quotidianamente. Purtroppo vediamo questa situazione anche nel settore più importante per l’Europa, quello dell’automotive, con tutte le conseguenze potenzialmente disastrose date non solo da un costo del lavoro molto più alto, ma anche dal Green Deal.

Quindi l’Asia rimane la fabbrica del mondo?

I miei amici indiani sostengono che i paesi ad alta intensità di manodopera sono obbligati a tenere basso il costo del lavoro perché far funzionare le fabbriche è l’unico modo per mantenere miliardi di persone che lo Stato non potrebbe mantenere: lo stipendio deve essere basso per fare in modo che lavorino tutti, che i paesi occidentali continuino a dare lavoro e che il costo della vita rimanga accettabile. Se aumenta il costo della vita, aumentano anche gli stipendi e, di conseguenza, diminuiscono gli ordini delle fabbriche. E poi chi mantiene quei miliardi di persone? Quindi l’idea di riportare le fabbriche nei nostri paesi è stimolante, ma difficile da realizzare in concreto, perché i paesi ad alta intensità di manodopera saranno sempre molto più competitivi dei nostri.

Allora diventa sempre più difficile fare impresa nel nostro paese…

È difficile fare impresa nel nostro paese (come ovunque credo) perché il mercato è maturo e complesso, le normative sono sempre più stringenti, le esigenze dei consumatori più raffinate e sofisticate, il tasso di obsolescenza è alto e i costi sono altissimi. Qualsiasi cosa tocchi costa tanto. Ma si può fare. La cosa più importante è sempre divertirsi in quello che si fa, trovare soddisfazione, altrimenti non c’è impresa o imprenditore che tenga, perché, se metti a confronto il livello di rischio che assumi con il profitto che ne ricavi, molli tutto.

È essenziale anche ingegnarsi per trova re sempre nuove vie…

Quella è una benzina importante, però l’imprenditore deve ammettere che si diverte nel fare il suo mestiere. Purtroppo, la funzione dell’imprenditore è spesso abbinata soltanto al profitto finanziario e manca la constatazione del profitto intellettuale che viene dalla soddisfazione di fare un lavoro che ti piace. Se venisse trasmessa questa particolarità del nostro mestiere, forse, ci sarebbe qualche ragazzo in più a intraprendere con entusiasmo una sua avventura imprenditoriale, anziché rimanere attaccato ai social con il cellulare in mano. E quando fai qualcosa che ti porta piacere non hai neanche il tempo di spendere i soldi, anzi, consideri quasi una perdita di tempo prenderti una pausa per “staccare la spina”, come ripete spesso chi vive il lavoro come una penitenza. Ciò che viene trasmesso ai giovani, invece, è il pregiudizio sull’imprenditore come sfruttatore o addirittura come truffatore, oppure come egoista e in differente alle condizioni di lavoro dei dipendenti, alla loro incolumità e, di conseguenza, alla sicurezza dell’ambiente in cui operano. Come se la vita fosse priva di pericoli, si continua a pretendere che il livello di sicurezza nelle aziende sia a “rischio zero”, dimenticando che ciascuno può cadere dalle scale di casa o farsi male anche mentre pota le piante in giardino. Non possiamo sovraccaricare le aziende di costi che i nostri concorrenti asiatici non hanno – burocrazia, certificazioni, tempi lunghi – anche perché sono costi che incidono sul prezzo del prodotto, quindi, sul consumatore finale.

Tuttavia, da una parte, le aziende hanno mille oneri e adempimenti cui attenersi, mentre, dall’altra, non esiste una “scuola” dove chi deve avviare un’impresa possa acquisire gli elementi basilari per gestirla. Ormai qualsiasi mestiere deve essere certificato – dall’elettricista che mette a posto una presa al tecnico che controlla una caldaia –, mentre nessuno certifica che chi apre un’attività sappia almeno leggere un bilancio. Poi non lamentiamoci se alcuni sedicenti imprenditori non hanno abbastanza rispetto dei fornitori, dei clienti, dei collaboratori e delle normative vigenti. Ci rallegriamo quando aumenta il numero di partite Iva nel nostro paese, invece dovrebbe interessarci quanti imprenditori abbiamo formato. Anche perché, appena qualcuno non paga i fornitori, per esempio, gli effetti si ripercuotono a cascata sull’intera filiera: i problemi di un’impresa non sono mai circoscrivibili fra le sue quattro mura. Ecco perché dovremmo essere noi imprenditori a pretende re di poter verificare quali strumenti hanno acquisito coloro con cui abbia mo a che fare.