L’ACCOGLIENZA DELL’IMPRENDITORE

In Italia molte imprese sono nate nel garage, nella cantina o nel sottoscala della casa, la casa bottega. Oggi la particolarità di queste aziende è costituita dalla produzione di manufatti eseguiti a misura delle richieste del cliente. In questi casi di qualità, la casa è divenuta casa di produzione e non ha nulla di domestico. Anche la vostra impresa ha mosso i primi passi nella bottega, dove Raffaele ha incominciato a lavorare con la collaborazione della nonna, e oggi le vostre produzioni di attrezzature per carrozzerie, di cui avete depositato diversi brevetti, sono molto apprezzate in Italia, in Europa e nei mercati internazionali per la semplicità dell’utilizzo e perché sono modificabili a seconda delle esigenze…
Raffaele: certamente, anche la nostra impresa è nata in una bottega, che, con l’aumento della produzione, è stata trasferita nella sede attuale dell’azienda. Non era mia intenzione acquistarla. Ritengo, infatti, che la casa in cui abitare debba essere di proprietà, in modo da poterla modificare secondo le necessità che intervengono, se fosse in affitto non sempre ciò potrebbe avvenire. Sono invece stato costretto ad acquistare la sede dell’azienda, perché, nella seconda metà degli anni ottanta, non era facile trovare locali in affitto. Oggi possiamo effettuare lavori di manutenzione senza dover chiedere il per messo a nessuno. Non abbiamo avuto altri vantaggi da questo investimento se non che è servito da garanzia per ottenere credito dalle banche. In altre parole, la proprietà dell’immobile aumenta anche il valore del progetto imprenditoriale, anche se oggi l’acquirente di un’azienda è interessato soltanto al suo valore commerciale e non all’immobile, solitamente disposto a prendere in affitto. Il giorno in cui vorrà spostarne la sede, per qualsiasi motivo, non sarà oberato dagli oneri di proprietà. Ecco perché non c’è grande richiesta di immobili industriali, diversamente da quanto avviene per quelli a uso residenziale.
Per le aziende meccaniche c’è un’al tra questione: anche acquistando sol tanto due macchine è necessario investire più di un milione di euro. Oggi chi investe un milione di euro? Con quale prospettiva? Gli acquisti sono programmati in base a commesse che domani l’impresa potrebbe non avere più, perché sono cambiate le richieste. Inoltre, la proprietà è diventata un peso, fra tasse e spese di manutenzione sempre più onerose. Noi, proprio perché l’azienda è di proprietà, abbiamo effettuato lavori importanti, per esempio mettendo il cappotto, il fotovoltaico, tutte le grondaie nuove e i pluviali. Se non fosse stata di proprietà, non saremmo stati obbligati a installare il fotovoltaico, per esempio.
Negli anni sessanta in Italia c’era il mito della casa e della macchina di proprietà, e le imprese nascevano nelle cantine-botteghe perché ciascuno aveva l’esigenza di produrre. Oggi, invece, sembrano diffuse la mentalità dell’assistenzialismo e l’idea di abitare in casa in affitto, come avviene nei paesi del Nord Europa a più ridotta densità abitativa…
Raffaele: l’automobile era “la mia automobile”, invece, negli ultimi vent’anni l’auto da utilizzare tutti i giorni è acquistata in leasing. Allora, meglio investire in una Ferrari di proprietà, che acquisisce valore anche quando è tenuta in garage, mentre nel quotidiano conviene avere costi certi, come può essere un leasing con rate mensili, e poi, scaduto il contratto, se ne prende un’altra.
In questo numero discutiamo anche dell’accoglienza. Nella casa come casa di produzione intervengono molti dispositivi con i vari collaboratori, per esempio. In che modo per voi l’azienda esige il dispositivo dell’accoglienza?
Lamberto: vorrei precisare che noi qui non siamo come una famiglia, ma piuttosto siamo come una squadra sportiva. Dico questo perché il discorso dell’accoglienza, per quello che sento dire e che leggo, è spesso collegato a questioni di carattere sociale, non ai problemi che intervengono nella produzione.
Noi intendiamo l’accoglienza come un modo di ascoltare le esigenze dei nostri collaboratori per meglio organizzare l’ambiente di lavoro. Noi siamo in ascolto, anche se poi non sempre il nostro sforzo viene apprezzato, perché proviene dai proprietari, e qualche volta c’è chi preferisce mantenere la cosiddetta “divisione sociale” anche quando questa non c’è.
Si tratta di un pregiudizio?
Io lo chiamerei un filtro, in quanto il pregiudizio è qualcosa di personale, mentre in questi casi interviene un’i dea di ruolo sociale. Se parliamo di accoglienza, mio padre potrebbe dire qualcosa, perché l’accoglienza è per lui come un fiume che scorre dalle montagne al mare. Lui ha la cultura dell’accoglienza, soprattutto con i clienti. Quando arrivano in azienda, per esempio, li accoglie portandoli in visita nei vari reparti produttivi e, prima di salutarli, non manca mai di omaggiarli con libri su Bologna. Inoltre, portarli a pranzo e soprattutto a cena è per lui un appuntamento immancabile e, facendo in questo modo, annulla magicamente anche il gap linguistico, quando per esempio arrivano da altri continenti. Lui parla e si aspetta che l’altro lo capisca e tanto meglio se gli siede accanto il traduttore, altrimenti lui continua fino a quando l’ospite non arriva a intenderlo. La comunicazione è proprio un suo talento.
Raffaele: a me piace trasferire all’ospite la cultura della nostra regione e della nostra città, l’intreccio fra la sua storia e le sue tradizioni, anche quelle culinarie. A volte ho accompagnato a visitare la Basilica di San Luca i clienti di altre religioni.
E l’accoglienza dei collaboratori?
Raffaele: per noi è sempre stata una tradizione accogliere l’ultimo collaboratore assunto, per esempio in occasione della Pasqua: era delegato ad aprire l’uovo pasquale carico di sorprese. Oppure abbiamo organizzato una festa in azienda quando è andato in pensione uno fra i nostri collaboratori storici. Fino agli anni duemila questi appuntamenti erano anche più sentiti in azienda rispetto a oggi. Lavorare fianco a fianco era un’esperienza che accomunava proprietà e collaboratori, per questo organizzavamo la festa di Natale e andavamo fuori a mangiare tutti insieme. Ma oggi lavorare è inteso soltanto come mezzo per guadagnare, non per trovare compagni di viaggio e anche amici. Se adesso propongo di andare a cena fuori, non tutti partecipano perché il tempo libero lo vivono in modo diverso. Una volta avveniva come una sorta di simbiosi, come quella che c’era fra cliente e fornitore, si parlava di “attaccamento all’azienda”, che oggi è molto raro. Basta considerare soltanto quanto avviene, per esempio, nei colloqui di assunzione: il candidato è solito guardare il soffitto; in questi casi accade anche di sentirsi chiedere di poter lavorare in modalità smart working oppure di sentirsi interrogati con domande come: “Cosa fate voi per l’ecologia?”.
Lamberto: secondo me oggi l’attaccamento è rispetto a ciò che si fa fuori dall’ambito lavorativo. Conta di più la qualità del tempo trascorso fuori dall’azienda.
Lei interviene ormai da diversi anni in MWM, quindi ha avuto modo di parlare con molti giovani…
Lamberto: l’emergenza da Covid degli anni scorsi ha cambiato molte cose, perché le persone sono state costrette a trovare qualcosa da fare a casa. In questo modo hanno riscoperto il valore del tempo libero e di quanto questo fosse importante per loro. Oggi molti giovani dicono: ci sono io prima del mio lavoro. Il famoso motto “Tu non sei il tuo lavoro” è divenuto il discorso in voga. Di conseguenza è più facile dire: “Se non mi sta bene questo posto me ne trovo un altro” e “Se non mi va bene nemmeno questo, allora ne troverò un altro ancora”. Questo tipo di ragionamento è diventato abituale.
Bisogna considerare però un altro aspetto, secondo me non secondario: il famoso discorso dello scontro gene razionale. Penso che questo intervenga in modo ciclico e sia strutturale: le modalità di lavorare dei collaboratori più anziani non sono quelle del lavoratore che ha vent’anni in meno. Sono dinamiche fra persone che hanno esigenze differenti. E quando ha a che fare con operatori abituati a lavorare in un certo modo, il giovane assunto ha tutto il diritto di cercare un altro lavoro. Se in quell’azienda non è sereno e vuole cercare la felicità altrove io non trovo niente di male che scelga un’altra strada.
Raffaele: noi abbiamo effettuato interventi per migliorare la qualità dell’ambiente di lavoro in azienda. Per esempio, abbiamo ristrutturato tutti i bagni, perché una volta erano alla turca. Inoltre, abbiamo predisposto i locali per la mensa aziendale, provvisti dei mobili da cucina completi di elettrodomestici e stoviglie. A noi piace fare le cose in un certo modo, con una certa cura del dettaglio. Avere bagni nuovi anziché alla turca o una mensa nuova e funzionale sembra qualcosa di scontato oggi, ma non lo è affatto. È invece più facile lamentarsi perché l’acqua calda è troppo calda. Ma noi facciamo le cose perché crediamo che occorra vivere in un ambiente migliore, non perché siamo obbligati. E poi, quando viene un cliente e vede una mensa bella, pulita e tenuta in ordine, apprezza anche di più l’azienda.
In questi casi, l’idea di divisione socia le sembra impedire la parola e, quindi, il ringraziamento…
Raffaele: sì, infatti c’è ancora chi dice: “il padrone”. Ma non esiste più il padrone, perché il padrone siamo tutti noi, tutti insieme siamo padroni del lavoro che facciamo, perché dobbiamo raggiungere insieme lo stesso risultato. L’accoglienza, propria del fare, riguarda ciascuno.