QUALE CASA, QUALE ACCOGLIENZA, NELLA FAMIGLIA, NELL’IMPRESA, NELLA NAZIONE

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO) e di EUROLAB, vicepresidente di ASSOTIC

Nel suo libro La mia bussola. L’amicizia, la famiglia, l’impresa (Spirali), lei rende partecipe il lettore della sua esperienza in vari contesti della vita e, dal suo racconto, si evince che il suo approccio è sempre lo stesso, in famiglia, in azienda o con gli amici: c’è una base intellettuale che le consente di vivere in ciascun ambiente e in ciascun ambito procedendo dall’apertura e facendo in modo che il suo interlocutore sia accolto. Per questo confidiamo che possa dire qualcosa di essenziale a proposito del titolo di questo numero della rivista: La casa. La proprietà, l’investimento, l’accoglienza…

Ci sono almeno due accezioni di “casa” che mi vengono in mente immediatamente: la casa come edificio di proprietà e la casa come dimora. In Italia, quando si dice casa, si pensa subito al “mattone”. Dall’ultimo rapporto di Confedilizia risulta che il 77% degli abitanti nel nostro paese vive in case di proprietà. È chiaro che il mattone dapprima appare come un investimento soltanto di tipo economico, ma appena il proprietario ci mette dentro le sue cose – mobili, opere d’arte, suppellettili, vestiti, effetti personali – non è più una casa, ma “la propria dimora”. E dimora fa anche rima con accoglienza: l’accoglienza dell’ambiente in cui si torna volentieri al termine della giornata, ma anche l’accoglienza da parte della famiglia, soprattutto quando c’è concordia, come avviene nella maggior parte dei casi; inoltre, la famiglia è accogliente verso i familiari, e questa è un’accoglienza anche della cultura che si produce nella famiglia: il bimbo che nasce, il ragazzo che cresce accoglie la cultura della famiglia e la fa propria.

L’accezione di casa come dimora, però, si estende a qualsiasi ambiente in cui posso dire che “mi sento a casa”: sul lavoro, per esempio, se avverto che c’è accoglienza e c’è una cultura che mi appartiene o alla quale appartengo, che ci sono persone con cui instauro dispositivi della parola, in cui c’è ascolto; e la stessa cosa può avvenire nel gruppo degli amici o nella squadra sportiva. Trasformare un’azienda in una dimora comporta un investimento intellettuale, ma anche economico, che garantisce una cultura di rispetto, di parità di genere, di opportunità che vengono offerte, di attenzione alla vita delle persone, di crescita culturale, di stimolo al di battito, di apertura…

È ciò che fate in TEC Eurolab fin dall’inizio dell’attività…

È ciò che ci proponiamo di fare, ma occorre uno sforzo notevole da parte dell’azienda, oltre che da parte di ciascun collaboratore. L’accoglienza che fa sentire a casa le persone fa parte di un processo costante, che non si esaurisce con qualche incontro periodico di formazione, ma esige un approccio intellettuale ciascun giorno, perché si estrinseca in vari modi: l’accoglienza verso il collega, verso le sue idee e verso culture e religioni differenti dalla nostra.

Tra parentesi, a proposito di ciò che facciamo in TEC Eurolab, c’è una leggenda diffusa ormai da anni nell’ambiente dell’Associazione per la responsabilità sociale d’impresa di Modena, di cui siamo soci fondatori. L’altro giorno, durante una riunione della piattaforma dell’Unione delle Terre d’Argine che si è tenuta nella nostra azienda, il coordinatore, Walter Sancassiani, al termine dell’in contro ha voluto sottolineare l’attenzione che abbiamo sempre avuto per la cultura con una battuta: “Sapete dove siamo? Nell’azienda che già quindici anni fa ha organizzato un master su Machiavelli nell’impresa”.

In effetti, voi siete stati i primi a organizzare con noi questo master intorno a Niccolò Machiavelli come brainworker ante litteram, che ora sta diventando uno strumento essenziale per gli imprenditori e i manager che intendono la portata della cultura per la direzione e la strategia d’impresa. E, in realtà, come c’insegna il rinascimento, non c’è accoglienza, non c’è ascolto – nei dispositivi con i clienti, i fornitori e i collaboratori – senza il percorso culturale e il cammino artistico…

 L’accoglienza nella dimora in sen so lato, non solo come abitazione, è molto importante. E la dimora è anche la città, è anche la nazione. Allora, mi chiedo: “Modena è la mia di mora?”. Sì, però avrebbe bisogno di qualche aggiustamento, perché nella mia dimora vorrei sentirmi sicuro, per esempio, vorrei poter passeggia re di sera per le vie della città senza paura delle baby gang – a casa mia non ci sono le baby gang – e vorrei che fosse più pulita, proprio come la mia casa. E poi mi chiedo: “L’Italia è la mia dimora? Vivo bene in Italia?”. Sembrano domande banali, ma fatto sta che molti giovani lasciano il nostro paese in cerca di un’altra dimora. E qui mi viene in mente la bellissima canzone di Giorgio Gaber, Io non mi sento italiano, che ha dato il titolo all’omonimo album uscito nel gennaio 2003 a poche settimane dal la sua scomparsa. “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono” è il ritornello di quella canzone in cui Gaber si rivolge a un non meglio identificato Presidente, e non è una canzonetta, contiene passaggi veramente importanti che si applicano anche alla nostra dimora sociale, quindi al territorio, alla città. Dopo vent’anni, possiamo chiederci ancora quale sia l’investimento che lo Stato, la pubblica amministrazione fa nei termini dell’accoglienza verso i propri cittadini, e non soltanto verso gli immigrati.

E qui dovremmo fare una riflessione sul termine “accoglienza”, che non può essere esercitata soltanto da chi riceve l’ospite, ma anche dall’ospite che entra in una casa, così come in una nazione: l’accoglienza non può essere a senso unico. Chi arri va in un paese deve accoglierne la cultura, non può isolarsi ed edificare ghetti, come accade in alcuni casi da parte di persone che provengono da paesi in cui, al contrario del nostro, quando ci andiamo pretendono che seguiamo le loro regole in modo rigido e indiscutibile. Allora, occorre che il termine accoglienza sia vagliato dall’Accademia della Crusca: mettiamoci d’accordo su ciò che vuol dire e decliniamolo politicamente, così diventiamo il popolo più accogliente del mondo.

A proposito di accoglienza e di ospitalità, si sta verificando un problema che contribuisce alla fuga degli abitanti dalle nostre città, a vantaggio dei turisti, ovvero la diffusione degli affitti brevi…

Infatti, tra un po’ avremo una Firenze senza i fiorentini, una Roma senza i romani e una Venezia senza i veneziani, avremo tante Orlando, tante Disneyland, dove prosperano solo i commercianti e una bottiglietta d’acqua costa tre euro. Il governo Draghi ha emanato una legge per cui i proprietari possono affittare ai turisti al massimo per 120 giorni all’anno, dopodiché, devono dotarsi di tutte le caratteristiche di una struttura alberghiera. Ebbene, purtroppo, l’applicazione di questa legge è a discrezione dei comuni, e Venezia non la applica, perché evidentemente sottostà alle pressioni delle lobby. È un tema veramente spinoso, che speriamo possa essere risolto.

Ma il problema degli affitti c’è anche a Modena, non perché sia una città a vocazione turistica, ma per ché soltanto pochissimi proprietari sono disposti a mettere a reddito i loro appartamenti e questi pochissimi li affittano a prezzi esorbitanti a studenti e lavoratori, fino a 500 euro per una stanza. Per di più, i giovani oggi non hanno la possibilità di sobbarcarsi un mutuo, come poteva avvenire nella nostra generazione: non ci sono le condizioni economiche per farlo e, anche qualora ci fossero, in un contesto in continua trasformazione come quello che stia mo vivendo a partire dall’avvento della globalizzazione, la proprietà della casa forse non è la priorità. Sessant’anni fa, invece, quando avevo cinque o sei anni, per quanto la nostra casa fosse modestissima, il papà ci teneva molto, era casa nostra: “Da qui nessuno ci manda via”, ripeteva. Tuttavia, se qualcuno volesse acquistare oggi un appartamento in cui vivere, dovrebbe confrontarsi con un aumento esorbitante dei prezzi degli immobili: se facciamo un paragone tra quante mensilità medie servivano negli anni sessanta e settanta per acquistare un appartamento e quelle che servono oggi, non basta una vita per acquistare a Modena, non a New York, un appartamento che non sia di 40 metri quadri.

La carenza di abitazioni sta diventando un tema di rilevanza sociale, ma anche economico, perché le aziende manifatturiere del nostro territorio, che già fanno fatica a reperire manodopera qualificata, quando finalmente trovano qualcuno, magari proveniente da altre regioni d’Italia o da altre nazioni, non riescono a offrirgli una sistemazione dignitosa e sostenibile. Nella nostra bacheca, come in quelle di tante aziende, abbondano gli annunci: “Cerco urgentemente casa in affitto”. L’altro giorno, ben tre giovani collaboratori sono venuti nel mio ufficio per dirmi che stanno cercando disperatamente un appartamento in affitto. La sera ho provato a fare un giro a piedi in centro a Campogalliano, ma, nono stante nella piazza ci siano quattro agenzie immobiliari e una un po’ più decentrata, non ho visto un solo annuncio di affitto. È un problema che va risolto e non capisco perché la politica sia così latitante, soprattutto in una regione ad alta produttività come la nostra. È inaccettabile questo immobilismo. L’ultimo intervento per realizzare edilizia residenziale pubblica in Italia risale al Piano Fanfani (1949-1963). Amintore Fanfani, all’epoca ministro del lavoro e della previdenza sociale, affidò all’INA Casa la gestione di questo progetto che rappresentò una delle più grandi iniziative a livello europeo, volta a favorire, oltre al rilancio dell’edilizia, l’assorbimento di un considerevole numero di disoccupati e la costruzione di alloggi per le famiglie a basso reddito. Il piano prevedeva un aiuto da parte dello Stato, l’intervento di chi voleva acquistare la casa, ma anche un contributo da parte di tutti i lavoratori, attraverso un prelievo in busta paga che veniva definito “una sigaretta al giorno”. I risultati furono notevolissimi. Eravamo nell’immediato dopoguerra, quindi la necessità della ricostruzione del paese era impellente. Oggi non abbiamo questa necessità, però il tema abitativo esiste e ormai se ne parla dappertutto, dalla Confindustria alla Regione, ma alla fine bisogna fare qualcosa, non si può più aspettare.