NON RINUNCIAMO ALLA PROPRIETÀ DELLE NOSTRE INDUSTRIE

A proposito del tema di questo numero della rivista, La casa. La proprietà, l’investimento, l’accoglienza, la casa è anche l’azienda come casa di produzione: più che un luogo, un “tempo” in cui le cose si fanno secondo l’occorrenza e in modo opportuno. Eppure, continua a prevalere spesso un’ideologia ottocentesca che considera la proprietà privata, e in particolare l’impresa, come un furto derivante da “sfruttamento” dei dipendenti da parte dell’imprenditore…
Dinanzi a un pregiudizio come questo ricordo spesso le parole di Luigi Einaudi, che ci ha lasciato una delle più belle e calzanti definizioni dell’imprenditore: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella pro pria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi”.
Purtroppo, sembra che l’investimento per “vedere la propria azienda prosperare” e per “ampliare gli impianti” stia scemando per molti imprenditori di aziende storiche che non hanno trovato chi fosse disposto a impegnarsi per proseguire il business e, al posto dell’investimento, rimane la fretta di monetizzare prima possibile l’attività, vendendola a un fondo, per lo più internazionale. E anche da parte dei giovani c’è spesso la corsa a cedere ai grandi gruppi le loro start up, frutto di idee innovative, perché non se la sentono d’imbarcarsi in un mare così imprevedibile come quel lo che offre il nostro paese. Sembra che siano in molti i cittadini che rinunciano al sogno imprenditoriale e i pretesti possono essere tanti, ma credo che alla base ci sia il rifiuto del “sacrificio”, che invece è necessario a realizzare qualsiasi “costruzione”. Gli imprenditori che hanno raggiunto traguardi eccellenti non si sono mai risparmiati, quando occorreva continuavano a lavorare anche il sabato e la domenica. E questo non fa parte di un’idea antiquata di fare impresa, ma vale ancora oggi: per esempio, Elon Musk ha affermato di recente di avere addirittura dormito nella sede della Tesla in California nel 2018, quando c’era bisogno di un maggior allinea mento fra progettazione e produzione.
Se il sacrificio non pesa agli imprenditori è perché lo intendono come una via per la riuscita, non come un male da estirpare: è qualcosa che giova alla loro soddisfazione, al compimento del progetto e del programma dell’impresa, che essi non ritengono affatto una proprietà a loro esclusivo vantaggio, ma un modo per dare alla comunità opportunità di crescita, di sviluppo e di qualità della vita. Questo sono e sono state da sempre le nostre imprese: qualcosa di “sacro” che ha priorità assoluta. Mentre oggi c’è un relativismo diffuso per cui tutto diventa sostituibile e intercambiabile. Così viene meno l’investimento, oltre che l’impegno. E quali cose possono riuscire nella vita se l’impegno è relativo?
La radice del termine “sacro” (sak), che si trova in varie lingue indoeuropee, è la stessa di “saga”, il racconto, il dire. Quindi il sacro è da intendere come il racconto che l’impresa scrive facendo, non come qualcosa di “intoccabile”, come s’intende comunemente il sacro…
Certo, l’impresa contribuisce alla costruzione della civiltà e, in questo modo, alla memoria, alla cultura e all’economia del nostro paese. Ma che non ci siano molti cittadini disposti a considerare l’azienda sacra è provato dal numero sempre crescente di realtà industriali che stanno andando all’estero. Pezzi della nostra storia che vanno ad alimentare le concentrazioni di capitale nelle mani di oligarchie finanziarie di cui non sappiamo quasi nulla. E lo Stato che cosa sta facendo contro questa desertificazione della proprietà? Spero che intervenga per scoraggiare questo stillicidio, ma non basta introdurre, come è stato annunciato, una sovrattassa nei confronti di chi realizza ingenti ricavi dalla vendita dell’azienda, perché comunque le risorse prelevate dai conti privati andrebbero a chiudere parte delle voragini del debito pubblico. Occorrerebbe invece che restassero a disposizione delle imprese, in modo da creare un effetto volano per l’economia.
Ma c’è un’altra questione di cui tenere conto: il venir meno dell’impegno nelle cose che facciamo sta minando alle basi non solo la proprietà privata, ma anche la famiglia, un dono che stiamo buttando via, perché è più facile vivere senza legami importanti. Siamo nella società della facilità, ma, come diceva Machiavelli, la via facile è la rovina: una nazione che non ha proprietà, o la cui proprietà non è diversificata, può essere preda di qualsiasi potere che si avvale della forza, anziché del diritto. E questo sarà il nostro destino se la maggior parte delle nostre aziende finirà nelle mani di fondi che poi le useranno per giocare in borsa.