DI UNA GENETICA SENZA EREDITARIETÀ

Nel luogo comune il concetto di eredità si forma a partire dall’idea di morte, e dunque si sovrappone all’idea di successione: è erede chi succede nel possesso dei beni a chi muore. In questo si definisce il “passaggio generazionale”: a chi passano i beni, per esempio le aziende, alla morte del titolare. Ma questa è la questione del trapasso, non dell’eredità: i beni sono presunti inerti e passano di mano in mano, seguendo l’albero della genealogia, del sangue fa miliare o l’albero dell’organigramma, dello spirito aziendale. Con qualche psicodramma, quando queste due logiche entrano in conflitto.
L’albero della successione è lineare: un uno succede a un altro uno, un figlio a un altro figlio, in un lignaggio in cui occorre scegliere uno dei due rami, nell’alternanza e nell’alternativa. All’uno segue l’uno: successione temporale o spaziale, è la logica dell’imperium, logica del primo e del secondo, per una consequenzialità di passaggi e di rotture in cui l’evento, la novità non possono prodursi. Infatti nella sequenza degli uni non può intervenire, idealmente, il più di uno, il successore non personificabile, ignoto, che assilla ogni regime. Idealmente, perché nella vita questo successore è intoglibile, come avverti va Niccolò Machiavelli, che scriveva nelle Sentenze diverse: “Antonino Pio disse a uno delatore che invano si affaticavano li imperatori, perché nessuno ammazzò mai il suo successore”. E il matematico Giuseppe Peano notava che per contare non bastava l’idea di uno, occorreva l’idea di successore. Per lui il successore non è qualche uno, è un’idea indispensabile per il calcolo, è un’idea pragmatica, la fede nella riuscita. Nessun riferimento alla morte, nessuno può incarnare il successore. “E ogni volta che un imprenditore – scrive Armando Verdiglione nel libro Il capitale della vita –, in qualunque età, si ponga il problema della successione, la fede assoluta nella riuscita è sospesa. Ecco la questione: qual è il dispositivo intellettuale, proprio della vita, del viaggio, dell’impresa, della città?”.
L’eredità non è la successione, non comporta linearità o rotture. E mentre taluni ritengono che “eredità” derivi dall’accadico redu, “successore”, vi è chi indica che heredem verrebbe da una radice indoeuropea, ghar, che comporta il tenere, il prendere. E Giambattista Vico annota: “Indi fu detto ‘haereditas’ da ‘haerendo’” (Sinopsi del diritto universale, p. 11, UTET), da haerere, tenere fisso, attaccarsi, da cui, scrive Vico, heri, cioè “signori”. Ma è importante constatare che dall’indoeuropeo ghar derivano il greco cheir e l’antico latino hir, cioè “mano”. Erede dunque è colui che prende, che tiene, ma soprattutto heres comporta la mano, e hereditas è ciò che è proprio della mano. Dunque l’eredità è la manualità, cosa non sorprendente per chi crede che con l’eredità le cose passino di mano in mano, dalla mano di uno alla mano dell’altro.
Ma questa manualità è sostanziale, è la mano che s’impadronisce delle so stanze, è la mano che vuol reggere le fila, che cerca la presa sulla vita e sul la parola, la mano dell’imperium sui popoli e sulle città. Questa manualità sostanziale e mentale si oppone, idealmente, all’intellettualità, alla mano intellettuale, la mano della parola e della vita. Come potrebbe non essere qualificata intellettuale la mano del conto e del calcolo, del fare e dello scrivere, oppure la mano che dipinge e quella che costruisce? La mano intellettuale è la particolarità di ciascuno, la mano che non fa sistema né gruppo perché è dissidenza, irriducibile all’alternativa tra consenso e dissenso. Questa particolarità non aspetta o non riceve l’eredità, è l’eredita stessa, l’eredità intellettuale, che nessuno può tramandare perché è in atto, nell’atto di parola. Allora l’eredità intellettuale dell’impresa è la particolarità, la dissidenza con cui ciascuno interviene nell’impresa, non quel che riceve. Una signoria pragmatica. Dunque, ben oltre la nota formulazione di Johann Wolfgang von Goethe, citata anche da Sigmund Freud: “Quel che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnalo, per possederlo”. Questa è l’eredità mi sterica, che poggia sulla morte dell’Altro, è l’affiliazione come rigenerazione, è l’eredità spirituale.
Armando Verdiglione scrive che l’eredità che non si riduce a ereditarietà è l’aritmetica. Perché la chiama aritmetica? È un modo per sottolineare che l’eredità non è una questione algebrica né geometrica, dunque non è spirituale. Il soggetto algebrico distrugge l’eredità per ricostruirla. Il soggetto geometrico costruisce e mantiene l’eredità per di struggerla. C’è chi, pensandosi erede, elimina tutta l’eredità per rigenerare. E c’è chi, invece, in nome del purismo, mantiene l’eredità intoccata, quasi una reliquia. Ma qui si tratta di algebra e di geometria, cioè di algoritmi, non di aritmetica. L’eredità è incalcolabile, impensabile, imprevedibile: questa l’aritmetica, ovvero la particolarità, la dissidenza in atto, senza più ereditarietà. Nulla, vivendo, è ereditato. Da qui un’altra genetica, quella secondo la mano intellettuale, senza più riferimento alla morte.