L’EREDITÀ INTELLETTUALE DELL’IMPRESA

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, brainworker, direttore editoriale della “Città del secondo rinascimento”

Che destino avrà la mia azienda dopo di me?”. È una questione essenziale perché indica che in quell’azienda c’è una domanda di qualità, non solo da parte dell’imprenditore, ma da parte di ciascuno, e non una volta per tutte, perché il viaggio dell’azienda è costante, non è fatto di passaggi, rotture e cambiamenti.

Ciascuno dà il suo apporto al viaggio dell’impresa in base al proprio talento, che non è né di più né di meno rispetto a quello di un altro, procede dall’apertura, secondo la particolarità e la specificità. Eppure, a volte si crede che l’arrivo di un figlio in azienda possa indebolirne la struttura direttiva, in quanto “non ha l’esperienza e gli strumenti del fondatore o del predecessore”. Ma perché l’apporto di ciascuno dovrebbe sottostare a termini di paragone fra chi ha di più e chi ha di meno?

Ormai il coro è unanime nell’attribuire il mancato passaggio generazionale a questioni di relazione. Tuttavia, dobbiamo precisare: ciò che viene chiamato relazione è spesso il “rapporto”. La relazione come apertura non provoca alcun problema, i problemi arrivano quando ognuno si pensa e pensa l’altro in un “rapporto”: i conflitti e le guerre di famiglia intervengono quando ci si rapporta, quando i genitori e i figli entrano nella logica del superiore e dell’inferiore. E, purtroppo, questo influisce sul proseguimento dell’impresa: non a caso, in Italia, soltanto il 3% delle aziende arriva alla quarta generazione, il 12% alla terza e il 30% alla seconda (si vedano i dati del XXI Rapporto di Unioncamere).

Un altro aspetto che influisce sul proseguimento delle imprese è la noncuranza verso parole che vengo no ripetute in modo automatico, sen za analizzarne gli effetti. Ci si limita a constatare che per i giovani il lavoro e l’impresa non sono più una priorità, come lo erano invece per le generazioni precedenti. Ma non ci si chiede se per caso molti dei problemi attuali non dipendano proprio dai termini che si usano in modo scontato: ‘passaggio’ o ‘ricambio’, per esempio, sono due parole che indicano fine e sostituzione, la fine di un tempo (quello del genitore) per lasciare il posto a un altro tempo (quello del figlio), che dovrebbe subentrare al padre. Ma quanti sono i figli di imprenditori disposti ad accettare il ruolo di ‘prescelto’ come sostituto del predecessore? Anche perché chi oc cupa il posto del prescelto è costretto (o si costringe) a seguire un percorso obbligato. E quanti sono i giovani che accetterebbero di limitare il viaggio della loro vita a un percorso obbligato?

Se qualche decennio fa erano tanti i giovani che proseguivano l’attività di famiglia, senza porsi neanche la questione, oggi spesso sono gli stessi genitori che insistono affinché i figli abbiano l’opportunità d’intraprende re la strada che più risponde ai loro interessi. Se però i figli sono posti dinanzi all’alternativa cadono in uno stallo senza pari, perché la strada non è qualcosa che si possa sapere prima, non c’è un navigatore che possa guida re verso il sogno della vita. Nella mia esperienza come analista e brainworker constato che nessuno è in grado di decidere quando è posto dinanzi a un’alternativa. Allora, da che cosa di pende il fatto che un giovane decida di proseguire l’attività di famiglia, di andare a lavorare in un’altra azienda o di divenire imprenditore a sua volta? Un giovane, come ciascuno di noi, decide di lavorare in un contesto perché lì trova un interlocutore con cui instaura un dispositivo. E niente esclude che lo trovi nell’azienda di famiglia, ovvero che gli stessi genitori possano divenire interlocutori per i figli.  

Ma in che modo un genitore può divenire interlocutore per il figlio? Innanzitutto, parlando, senza risparmiare ai figli il racconto della giornata o senza etichettare le cose come positive o negative. Come testimoniano gli imprenditori che intervengono in questo convegno (L’eredità intellettuale dell’impresa nell’era dell’AI, Confindustria Emilia Area Centro, Modena, 21 novembre 2024), i casi in cui i figli han no proseguito nell’azienda di famiglia sono quelli in cui l’hanno frequentata f in da bambini e non vedevano l’ora di cimentarsi per dare il loro apporto. Questa è la vera eredità, la particolarità dell’apporto di ciascuno. E per questo l’azienda non si eredita, ma s’inventa ciascun giorno, è l’impresa in viaggio. Sta qui la generazione, in questa ingegneria, nell’ingegno e nella generosità intellettuale che intervengono negli in contri con i collaboratori, con i clienti e con i fornitori. Ma questo implica che l’imprenditore coltivi la curiosità intellettuale e cerchi la qualità della parola, anziché parlare in modo facile e “spontaneo”.

Se non c’interroghiamo intorno agli effetti della parola, poi non ci meravigliamo quando un figlio non apprezza tutto ciò che il genitore gli offre e se ne va il più lontano possibile dalla famiglia. Perché accade questo? I casi sono tanti, ma spesso accade perché s’innesca una specie di gara fra l’imprenditore e il figlio, sempre nella logica del rapporto, nell’idea di parità sociale, in cui ognuno dei due cerca di dimostrare di essere più intelligente o più astuto o più capace dell’altro. Comunque, questa gara di per sé non basterebbe a far desistere il ragazzo, se il genitore instaurasse un’interlocuzione con lui. Se, invece, ciò che si dice viene preso come segno di un comportamento (positivo o negativo che sia), senza la parola, allora, il figlio si mette a rappresentare l’alternativa, la via di fuga: “Ah, se lui mi odia, io me ne vado”; oppure: “Mio padre preferisce mio fratello, quindi non c’è posto per me in questa famiglia”. E il genitore ci casca. Ma anche quando il conflitto rimane a livello di guerra fredda e il figlio lavora in azienda, spesso si lamenta che l’ombra del padre è troppo ingombrante. Come possiamo notare, anche questo rientra nella logica del rapporto fra il grande che proietta la sua ombra e il piccolo che la subisce: ancora una volta, anziché l’attenzione e la tensione verso la qualità, anziché il rischio e l’audacia essenziali alla riuscita, subentra il paragone, che riduce tutto al più e al meno, senza l’autorità, senza la funzione di zero di cui il padre è indice, e allora il padre e il figlio diventano due uni, ovvero fratello maggiore e fratello minore. E il paragonarsi è una pratica che frena l’esperienza e l’investimento, il progetto e il programma, perché ognuno rimane a guardare il proprio ombelico. Cosa che fanno anche i col laboratori quando dicono, per esempio: “Il mio titolare mi tratta come un numero”; oppure: “Ho capito che ha le sue preferenze, quindi, è meglio che incominci a guardarmi intorno”. Immaginiamo in che misura investe in ciò che fa chi è preso dall’invidia e dalla gelosia del rapportarsi.

Ma su che cosa si basa il rapportarsi? Sull’idea che gli umani siano fatti di sostanze misurabili, pesabili e definibili, quindi che siano uguali. Ogni gara presuppone che si debba dimostrare chi è più uguale e chi è meno uguale. Non c’è un individuo uguale all’altro, eppure, le guerre fratricide scoppiano proprio perché ognuno non accetta di essere considerato meno uguale dell’altro: “Perché a lui sì e a me no?”, chiede il fratello o il collega, per questo poi deve differenziarsi, facendo il bastian contrario. Ma, se nulla è uguale, se l’uno è differente da sé, diviso da sé (come si può intendere leggendo Pirandello, in particolare, Uno, nessuno e centomila), non c’è bisogno di differenziarsi, di rappresentare la differenza, e ciascuno può compiere il proprio itinerario procedendo dall’apertura, secondo l’eredità intellettuale che gli è propria, anziché fuggire dal presunto modello del padre, della madre o del fratello maggiore, o aderirvi.

Nei casi in cui i conflitti si acuiscono, alcune famiglie delegano la decisione sul destino dell’azienda agli esperti di family business. È importante chiedere un parere ai professionisti, ma la loro consulenza tecnica dev’essere affiancata dall’analisi delle questioni inascoltate che hanno portato al conflitto, occorre compiere uno sforzo per intendere quali sono il progetto e il programma di ciascuno, prima di prendere qualsiasi decisione. E questo può farlo soltanto chi ha una formazione specifica di brainworking. Lo stesso imprenditore può acquisire questa formazione che offre strumenti di lucidità da adottare in azienda, come avviene in alcuni casi in cui l’imprenditore è interlocutore di ciascun collaboratore e viceversa ciascun collaboratore è suo interlocutore. Una cosa importante da notare è che gli interventi di brainworking sono sempre in adiacenza, mai in sostituzione né in contrapposizione. Si parla tanto di inclusività, ma l’inclusione presuppone il cerchio all’interno del quale ammettere qualcuno. L’adiacenza invece procede dall’apertura, dal due che non fa cerchio, non mira a divenire uno, cioè a sacrificare ora il padre, ora il figlio per raggiungere l’armonia ideale, scendendo a compromessi, per esempio, come quando si dice che qualcuno deve “fare un passo indietro”: allora, prima è il figlio che dovrebbe sottostare al padre, poi, quando il padre invecchia e il figlio cresce, è il padre che dovrebbe fare un passo indietro. Sarebbe questo il “passaggio del testimone”. Ma il passo non è né avanti né indietro, è senza passaggio, non comporta un prima e un dopo, e può essere anche di lato, perché l’itinerario è infinito e ciascuno può viaggiare accanto, in adiacenza, senza pensare di pestare i piedi all’altro. Il passo avviene con l’investimento di ciascuno (tanto del padre quanto del figlio), ed è costante: quale imprenditore può dire: “Io ho già investito, adesso mi fermo”, senza decretare così la morte dell’azienda? Con il nostro magazine, “La città del secondo rinascimento”, abbiamo constatato che neppure nel periodo della crisi globale del 2008 gli imprenditori che intervistavamo fermavano l’investimento, anzi, la crisi diveniva un’occasione per rilanciare e trasformare il loro business. Ma ciò avveniva nelle aziende in cui c’era analisi, non in quelle che aspettavano la fine della crisi.

Con l’analisi, con il braiworking, in comincia la ricerca, incomincia un’al tra storia (in greco historia vuol dire “ricerca”), una storia inedita, che chiede udienza proprio attraverso i problemi che hanno portato la famiglia al conflitto. Se questi problemi vengono presi come segnali della non accettazione della vita ordinale e ordinaria, con l’interlocuzione c’è la chance che ciascuno divenga caso di qualità.

Così, non c’è più l’albero con cui rappresentare l’organigramma dell’azienda, l’albero genealogico dove ognuno si mette in fila e aspetta il suo turno per salire sul ramo più alto. Al brainworker non interessa mettere in fila le persone, stabilire chi viene prima e chi viene dopo, chi sta davanti e chi sta dietro, bensì ciò che ciascuno dice, fa e scrive, procedendo dall’apertura, dall’albero della vita, e interessa ciò che resta di particolare e specifico, qual è il passo e qual è il piede del tempo nel viaggio dell’impresa. In breve, qual è il contributo che ciascuno dà, procedendo non dal rapporto, non dall’idea di superiorità e inferiorità, non dal siste ma, che è chiuso per definizione, ma dalla questione aperta, dalla questione intellettuale, fino al caso di valore assoluto, dove la ricerca e l’impresa sono libere, libere di divenire cifra.

 

Gli articoli di Anna Spadafora e seguenti (fino a pag. 27) sono tratti dagli interventi all’evento L’eredità intellettuale dell’impresa nell’era dell’AI (Confindustria Emilia Area Centro, Modena, 21 novembre 2024).