I GIOVANI: MOTORE DELLO SVILUPPO DELLE NUOVE TECNOLOGIE

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presidente del maglificio Della Rovere, Longastrino (FE), vice presidente di Piccola Industria Confindustria e di Confindustria Emilia Area Centro

Se è vero che nei prossimi dieci anni un’impresa su quattro in Italia rischia di non proseguire a causa del mancato “passaggio generazionale” (come suggeriscono i dati del XXI Rapporto di Unioncamere), quali sono gli interventi da mettere in atto nelle varie fasi del processo di integrazione in modo da accogliere il con tributo particolare di ciascuno sia nelle imprese familiari sia nella trasmissione di competenze? Che cosa può dirci a questo proposito, in qualità di vice presidente nazionale di Piccola Industria Confindustria e vice presidente di Confindustria Emilia Area Centro?

Innanzitutto, ho il piacere di vedere qui a Modena la sede di Confindustria rinnovata in modo veramente meraviglioso e ringrazio i collabora tori per il lavoro che svolgono ciascun giorno. Confindustria Emilia Area Centro è di per sé un caso di riuscita, che ha saputo integrare le esperienze di tre province, alzando il livello di qualità dei nostri consulenti e dei nostri collaboratori. È un effetto eccezionale di filiera, che sta funzionando molto bene e mi rende soddisfatto di avere partecipato negli ultimi sei anni alla realizzazione dell’unione fra le sedi di Bologna, Ferrara e Modena. Siamo riusciti anche a esprimere un presidente nazionale, il modenese Emanuele Orsini: per la prima volta nella storia, un pezzettino di Emilia, del nostro “fare”, è arrivato a Roma.

Quello dell’eredità intellettuale dell’impresa è un tema delicatissimo, che riguarda i giovani in generale, sia quando aprono una propria azienda sia, soprattutto, quando proseguono quella di famiglia. Purtroppo, accade che un imprenditore costruisca un’azienda giorno dopo giorno, errore su errore, fatica su fatica, e poi rischi di perderla nel 70% dei casi, come ci di cono le statistiche. Quello del passaggio generazionale è un tema di cui si parla tanto, ma senza un approccio scientifico, tant’è vero che non esiste una scuola per divenire imprenditori. Apriamo scuole per imparare a fare tatuaggi, trattamenti estetici e qualsiasi mestiere, ma non per trasmettere il mestiere dell’imprenditore. E, forse, a volte basterebbe scambiarci le migliori esperienze, in maniera anche semplice, come stiamo facendo in questo convegno (L’eredità intellettuale dell’impresa nell’era dell’AI, Modena, 21 novembre 2024), ma questo avviene raramente e comunque non in modo metodico.

Devo fare però una premessa: l’Italia e l’Europa, in generale, non rappresentano un ambiente fertile per l’impresa, noi imprenditori se miniamo su un terreno duro, intriso di burocrazia, di pregiudizi e di pubblica amministrazione spesso lontana dalle nostre esigenze. Faccio solo un esempio: a proposito della lentezza con cui si sta diffondendo il passaggio da Industria 4.0 a Industria 5.0, un vice ministro giustificava questo ritardo criticando il fatto che tante piccole imprese hanno utilizzato

la 4.0 per sostituire il tornio. È vero, ma qual è il problema se un’azienda ha potuto buttare via un tornio di trent’anni fa per acquistarne uno nuovo, dotato di tecnologia 4.0, digitale, più veloce e più sicuro, e ha colto l’opportunità di fare un passo in avanti? Vogliamo segarle le gambe fin dall’inizio? Questo è un esempio di come la politica parte da una presunzione di colpa anche quando il percorso dell’impresa è giusto. Per non parlare del problema della sicurezza sul lavoro: come soluzione agli incidenti vengono proposti l’aumento dei controlli e l’inasprimento delle pene, anziché, per esempio, la sostituzione dei macchi nari antiquati con nuovi modelli che dispongono di maggiori dispositivi di sicurezza. È un cortocircuito che va sempre verso la pena, aumentando i costi generali e le spese inefficienti a scapito dell’imprenditore onesto, che fa il suo dovere, e a tutto vantaggio dei furbetti, che fanno tutto di nascosto, senza nessun rispetto per l’ambiente e per le persone, perché tanto non hanno niente da perdere in Italia, magari hanno un gruzzoletto in Svizzera con cui pagano due bravi penalisti e vanno avanti trent’anni.

È una battaglia che dobbiamo por tare avanti ciascun giorno, se voglia mo che fare l’imprenditore sia considerato un vantaggio, un valore, come avviene negli Stati Uniti. Mi hanno colpito molto le prime parole del discorso del nuovo vicepresidente, James David Vance: “Io, signori, ho fatto la guerra del Golfo e ho fondato due imprese con duecento posti di lavoro”. Non ho mai sentito un politico che fosse orgoglioso di essere un veterano, di avere rischiato la pelle per il paese e, in più, di avere creato posti di lavoro. Vogliamo ammettere che creare posti di lavoro è un valore? Se non si ammette questo, il successo economico viene visto come segno del negativo, dello sfruttamento di una classe verso un’altra. E poi non meravigliamoci se si fa appello al controllo dello stato che, in quest’ottica, dovrebbe bilanciare le sperequazioni, senza tenere conto del merito dei singoli che intraprendono un per corso, assumendo la responsabilità e il rischio di una nuova attività, che non riceve alcuna garanzia da parte del pubblico. Allora, dobbiamo affermare con forza il nostro ruolo, quello di creare benessere per la società e la collettività. Fare impresa vuol dire creare libertà, non soltanto valore, e vuol dire creare sviluppo sociale.

È una premessa essenziale per arrivare a parlare dell’eredità intellettuale, perché dobbiamo capire il contesto in cui è chiamato a intervenire un giovane che avvia un’attività o prosegue quella di famiglia. Per esempio, nel nostro paese, all’incertezza del diritto si aggiunge l’incertezza dei tempi di realizzazione di qualsiasi opera edile. Un dirigente che lavora alla sede ferrarese della Basel, industria internazionale chimica con stabilimenti in Texas, in Olanda e in Germania, mi riferisce che la casa madre, per fare un budget, ha bisogno di sapere quanto tempo occorre per ottenere i permessi per costruire uno stabili mento: in Olanda due anni e mezzo, negli Stati Uniti un anno e mezzo, in Germania tre anni e mezzo e in Italia non si sa. Sarebbe già tanto sapere che occorrono sette anni: anche se sono troppi, iniziando con ampio anticipo, la costruzione si potrebbe mette re in budget. Con questa incertezza, invece, come si può convincere una società internazionale a investire nel nostro paese? Questa è una battaglia di cui dobbiamo fare la nostra bandiera, fa parte del nostro dovere etico combattere queste storture, facendo in modo che si riduca sempre più lo scarto fra il pubblico e il privato. Oggi lo stato non agevola l’impresa, ma il consumo: operiamo in una società in cui è difficile avviare un’attività, finanziarla e farla crescere. È più facile acquistare un BTP al 12,5%. Chi mette i soldi nel capitale di un’impresa, invece, sa che non li vedrà mai più.

Ma veniamo a noi, alle nostre responsabilità in quanto genitori. Quante volte sentiamo la raccomandazione: “Imprenditori, non spingete i figli a fare la vostra stessa vita”? Risultato: molti imprenditori hanno lavorato tanto, impegnandosi in modo assoluto, hanno avuto due o tre figli, li hanno mantenuti agli studi fino alla laurea o anche al master e oggi sono tutti in giro per il mondo, nessuno è rimasto nell’impresa. L’impresa poi è stata venduta a un fondo d’investimento, che l’ha spolpata al punto che è stata costretta a chiudere. Ma, ci chiediamo, è questa l’educazione che dobbiamo dare ai nostri figli? Sì, ai valori culturali, alla formazione di competenze, all’amore per i viaggi, ma stiamo facendo un buon lavoro rispetto all’eredità intellettuale e al patrimonio dell’impresa? Noi imprenditori sappiamo che è importante il conto economico, ma sappiamo che è ancora più importante lo stato patrimoniale, la gestione delle risorse. Questo è il lavoro dell’imprenditore: allocare le risorse. E allocarle nel rischio è l’altra scommessa. Quanto aiutiamo i nostri figli a prendersi dei rischi? “Ah! No, poverino, stai attento, non fare questo, non correre, sennò rischi di sbucciarti le ginocchia”, e facciamo campi sportivi con il tappe tino. Poi, la rata costa 500 euro e i nostri extracomunitari o quelle famiglie che hanno problemi economici non vanno a giocare, così non c’è comunità, non c’è squadra e non si cresce. Per crescere è essenziale il rischio, così come lo scontro, si cresce anche nello scontro, e dobbiamo accettare che la vita è fatta anche di scontri e di sbagli. La prima regola che dobbiamo trasmettere ai nostri figli è di non evitare le difficoltà.

L’altro aspetto che dobbiamo tenere presente nell’educazione è che non bisogna separare eccessivamente lo studio dal lavoro. Lo studio e il lavoro devono andare di pari passo molto di più, perché nel lavoro si acquisisce un approccio pragmatico indispensabile nell’impresa. Io ho studiato ingegneria elettronica, ma se faccio l’imprenditore oggi non è grazie alla mia laurea, bensì ai valori dell’auto artigianalità che ho ereditato dai miei genitori e alle mie esperienze lavorative estive al mare o in campagna, che mi hanno insegnato l’approccio verso i clienti, ma anche verso gli operai: essendo stato uno di loro, durante le vacanze del liceo, sapevo quali erano le loro esigenze. Tra parentesi, non è un caso se alcuni manager, che non entrano mai in fabbrica, non goda no di grande simpatia da parte degli operai.

Allora, qual è la mia proposta per affrontare in modo nuovo il passaggio generazionale? Dobbiamo rovesciare il problema: anziché considerare i figli e i collaboratori come “recipienti” in cui riversare esperienze e competenze, dobbiamo ammettere che i giovani sono motore di sviluppo strategico nelle applicazioni delle nuove tecnologie. Allora, affidiamo loro un aspetto delle nostre imprese, senza risparmiare loro il rischio, come non ce lo siamo risparmiati noi imprenditori quando siamo partiti. Gli ambiti in cui possono trovare la loro riuscita non mancano: intelligenza artificiale, e-commerce, internazionalizzazione, nuovi mercati, nuove sfide in cui possano cimentarsi senza paura di sbagliare né di scontrarsi, perché l’errore e il contrasto aiutano a crescere, come dicevamo. Il percorso di apprendimento non dev’essere finalizzato alla vittoria a tutti i costi, bisogna mettere in conto anche qual che errore: s’incomincia su piccola scala, con qualche piccolo esercizio, ma non si possono risparmiare gli sbagli in un percorso di crescita, oc corre permettere che ciascuno trovi la via lungo l’esperienza. I giovani possono trovare vie nuove rispetto alla nostra generazione e, in quanto agenti di sviluppo nelle nuove tecnologie, possono riuscire a offrire alle nostre aziende strumenti per cogliere le nuove sfide che ci attendono e che dobbiamo affrontare, se vogliamo non solo restare sul mercato, ma anche esplorare nuovi mari e approdare in nuovi porti in giro per il mondo.