“SONO UN RAGAZZO FORTUNATO”

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amministratore delegato di Carrera Spa

Il mitico marchio storico Carrera Jeans è nato nel 1965, anno della fondazione dell’azienda da parte di Tito (suo padre), Domenico e Imerio (suoi zii), che hanno avuto l’intuizione di fare produrre alle industrie tessili nazionali il denim italiano, mentre prima il tessuto per confezionare i jeans veniva dall’America. 

Nell’intervista che abbiamo pubblicato sul numero 110 della rivista, lei afferma che il suo ingresso nell’azienda di famiglia è avvenuto proprio nel momento delle “montagne russe”. Che cosa intendeva?

 Mi sono ritrovato molto nelle parole dei tre relatori che mi hanno preceduto; tuttavia, il mio è un caso molto fortunato, quindi è da prendere con le pinze. Parto citando le parole di Lorenzo Jovanotti: “Sono un ragazzo fortunato”, e ne spiegherò il motivo. Devo tornare indietro di sessant’anni: quando nasce nel 1965, in provincia di Verona, Carrera si specializza nella produzione di pantaloni per uomo, donna e bambino. Poi, alla fine degli anni sessanta, viene presa in pieno da un cigno bianco, un evento esterno positivo: i moti studenteschi, in cui i jeans diventano parte del linguaggio delle nuove generazioni. Carrera, forte della sua esperienza nella confezione di pantaloni, inizia a produrre jeans. Teniamo presente che nei primi anni settanta c’erano pochi soldi nelle famiglie, pertanto, per arrivare a fare volumi, occorreva realizzare un prodotto di alta qualità che potesse passare da un fratello all’altro, poi all’altro ancora, e costare poco. Quindi, Carrera mette in piedi una filiera italiana del denim e, siccome in quel periodo la domanda era molto più forte dell’offerta, il problema non era tanto vendere, quanto organizzare la produzione. Così, Carrera cresce tantissimo, al punto che alla fine degli anni ottanta decide di sponsorizzare i Mondiali d’Italia ‘90. Era un’azienda molto più grande di quanto non sia adesso, con diversi stabilimenti in Italia, a Malta, in Marocco e migliaia di persone che lavoravano alle sue dipendenze; oggi sarebbe un’azienda da un billion, rapportata ad allora.

Tuttavia, verso la fine degli anni ottanta, l’Italia incomincia a non essere più un paese adatto alla produzione di abbigliamento di fascia media, in quanto gli stipendi dei dipendenti sono aumentati, giustamente. Questo processo è molto accelerato dal crollo del Muro di Berlino, che ha aperto all’Europa dell’Est, consentendo a tanti concorrenti di Carrera, meno strutturati dal punto di vista industriale, di spostare la produzione in Romania, in Bulgaria e nella Repubblica Ceca, dove i costi della manodopera erano molto più bassi rispetto all’Italia. Di conseguenza, quello che era il punto di forza di Carrera, la sua struttura industriale, diventa il suo punto di debolezza, perché i nostri costi di produzione erano i più alti in assoluto.

Nei primi anni novanta per noi la traiettoria era molto chiara: occorre va chiudere tutto, e sappiamo che in Italia chiudere gli stabilimenti costa più che aprirli. Io entro in azienda nel 1994, proprio in mezzo a questo sconvolgimento. Dopo un anno in Belgio in un’azienda commerciale, che la vorava con la grande distribuzione – esperienza che mi servirà, come vedremo, a fare un passo fortunato per l’azienda –, che in Italia all’epoca non era ancora molto affermata, io non volevo assolutamente entrare in Carrera, perché a venticinque anni entrare in un’azienda che sta andando indietro non è molto semplice. Allora, mio padre mi prende da una parte e mi dice: “Pensaci bene: intanto conosci l’azienda, poi noi saremmo strafelici del tuo ingresso perché dai un segnale di continuità molto forte. Noi comunque siamo convinti di farcela, perché è un problema industriale, non un problema commerciale. Poi, che Dio ce la mandi buona, facciamoci il segno della croce, perché nessuno sa quel che accadrà. Però, se entri, farai un concentrato di esperienze che, se anche andassimo male, non potresti mai più fare nella tua vita”.

Allora, seguo il consiglio di mio padre ed entro con due ruoli: uno che m’impegnava nell’organizzazione commerciale e l’altro come assistente del presidente. Questo secondo ruolo mi ha permesso di partecipare a tutte le riunioni importanti dell’azienda con clienti, banche, fornitori e anche con i sindacati. Appena entrato, una cosa che mi ha sorpreso era l’amore dei dipendenti verso la Carrera: nonostante fosse un’azienda in grandissima ristrutturazione, nessuno andava via. Stranissimo. E, quando ho incominciato a lavorare, il mio primo obiettivo era di non essere un ulteriore problema ai già tanti problemi che c’erano, anche perché sapevo che il mio peso specifico, in quanto figlio del titolare, era alto: ciò che dicevo e facevo veniva pesato in maniera molto forte. Quindi mi sforzavo di ascoltare il più possibile.

Poi arriva il cigno bianco anche per me e, di conseguenza, per l’azienda, ovvero lo sviluppo della grande distribuzione organizzata: Coop, Carrefour e Auchan a fine anni novanta incominciano ad aprire i centri commerciali e gli ipermercati. E questo è stato un trampolino di lancio nuovo per la Carrera perché era il marchio giusto, al posto giusto, con il prezzo giusto, quindi rappresentava un boost molto forte per noi. Solo che la GDO era un cliente completamente differente dal grossista o dal negozio al dettaglio e in azienda io ero l’unico ad avere sviluppato queste competenze. Lavorare con la Coop, con Carrefour o con Auchan voleva dire avere a che fare con aziende molto strutturate, che richiedevano un rapporto completamente diverso, perché volevano dialogare con i titolari, senza intermediari. Quindi più diventava importante la grande distribuzione più diventavo importante io nella Carrera. Così, nel 1999, mi fanno entrare nel consiglio di amministrazione senza deleghe. La grande distribuzione cresce e nel 2001, all’interno di un CDA, il presidente mi dice: “Adesso è il tuo turno, sarai tu a portare avanti l’azienda d’ora in poi”. Rimango interdetto, ma lui insiste: “Sì, da oggi sei tu, noi ci mettiamo da parte. Non è un interruttore ‘dentro/fuori’, noi ci mettiamo di fianco, ma devi essere tu in prima linea perché hai le competenze giuste in questo momento per gestire una cosa nuova che noi non riusciremmo a gestire. Inoltre, hai l’età giusta per fare sbagli che saranno accettati dal mercato, cosa che noi non possiamo fare perché, se sbagliassimo noi, ci riterrebbero pirla”. Mi sono ritrovato dalla sera alla mattina amministratore delegato della Carrera Jeans nel 2001 e lo sono ancora oggi, dopo ventitré anni.

Se considero il mio percorso, posso dire che è stato fortunato perché si sono allineate quattro stelle, che non è facile si allineino. La prima stella si chiama famiglia: noi siamo nove cugini di seconda generazione, due maschi e sette femmine; io sono il primo dei cugini, il secondo ha scelto un’altra strada, tre delle sette cugine sono in azienda e quattro sono fuori, ma le tre in azienda sono importantissime per me dal punto di vista operativo, ho un bellissimo rapporto con loro e, per di più, non hanno mai voluto avere un ruolo direzionale; in poche parole, io non ho avuto con correnti. La seconda stella si chiama botta di fortuna: il mercato ha “girato” verso di me e mi sono trovato nel posto giusto, al momento giusto, con le competenze giuste. Accadono anche queste cose nella vita. La terza stella si chiama Gianluca, cui l’Angelo ha dato indole e capacità affinché si divertisse a fare questo lavoro. La quarta stella, la più importante, si chiama coraggio incosciente dei titolari, che a un certo punto hanno deciso di affidare a un trentatreenne la direzione di un’azienda complessa, con una storia altrettanto complessa come la Carrera, facendo due scelte cui accennava Gian Luigi Zaina: in primo luogo, hanno accettato che io facessi le cose in modo differente da come le avrebbero fatte loro, probabilmente anche meglio, data la loro esperienza; in secondo luogo, hanno tirato il freno a mano sulla loro autorità, perché sapevano benissimo che la loro parola e il loro comportamento valevano molto più dei miei e avrebbero potuto “spaccare” in ogni mo mento ciò che facevo, ma non l’hanno mai fatto. In cambio cosa ho dato io? Non mi sono mai sentito titolare della Carrera – non l’ho fondata io –, mi sono sempre sentito custode di ciò che mi è stato affidato. Pertanto ho sempre cercato, al massimo grado, di utilizzare la loro esperienza e la loro capacità per essere supportato, non per fare guerre di religione, ma per avere alle spalle una linea difensiva forte, per cui ho sempre condiviso con loro tutto ciò che dovevo fare. E vorrei aggiungere un termine a quel li analizzati da Anna Spadafora: nel mio caso posso dire che non c’è stato né passaggio né ricambio, ma “fusione” generazionale.

Io non ho avuto un mandato divino di gestire la Carrera S.p.A., lo faccio perché mi diverto e mi limito a seguire l’esempio che mi hanno tra smesso i fondatori: quello di mettere l’interesse e il benessere dell’azienda davanti all’interesse personale, perché questo crea un fortissimo amore per l’azienda e costituisce una linea di difesa fortissima. Non so perché la Carrera sia ancora in vita, nonostante le difficoltà che ha attraversato: quando presentiamo il bilancio annuale, mio padre e il presidente sembrano in estasi, è come se dicessero: “Un altro anno di miracolo. Grazie, Dio, la Carrera sta vivendo un anno in più”. Io sono portavoce di questo modo di essere, ma in realtà non conto niente nella Carrera, il vero proprietario della Carrera è chi indossa i capi che produciamo. L’abbigliamento non è un prodotto, è un linguaggio, è il primo strumento di comunicazione non verbale, quindi è molto delicato quello che facciamo, perché quando cambi qualcosa in un pantalone stai cambiando il linguaggio di chi lo indossa senza chiederglielo. La Carrera non l’ha mai fatto in sessant’anni, e i prodotti più venduti hanno sessant’anni di storia. Spero che mio figlio o chi per lui imbocchi questa traiettoria e sappia che il proprietario non è più l’azienda, ma chi ne indossa il prodotto. La nostra sarà un’azienda eterna, se rispettiamo questo linguaggio. L’uomo non ama cambiare: se ci fate caso, in questa sala siamo vestiti tutti allo stesso modo, con lo stesso colore, quasi tutti in blu, e trent’anni fa eravamo vestiti esattamente così. Quindi, cosa possiamo fare di nuovo come azienda di abbigliamento? Niente. Quali nuovi colori facciamo l’anno prossimo? Nessuno. E, in un settore come quello della moda, in cui ogni giorno si viene pressati a inventare qualcosa di nuovo, noi non dobbiamo fare niente di nuovo. In realtà facciamo tutto nuovo senza dirlo a chi lo indossa, perché davanti allo specchio deve vedersi esattamente come trent’anni fa. Il pantalone è un articolo molto complesso che normalmente non si cambia mai, perché quando uno ha trovato il suo modello non lo cambia. La nostra responsabilità è fare quel pantalone: sta qui la differenza tra Carrera e le aziende concorrenti, che hanno vita breve. La differenza tra noi e gli altri è che noi siamo industria, noi facciamo da sessant’anni sempre lo stesso prodotto, utilizzando sempre lo stesso cotone, sempre le stesse macchine e sempre con le stesse sarte. Quindi spero che le prossime generazioni tengano conto del fatto che il patrimonio della Carrera è di chi lo indossa.