L’OSPITALITÀ CHE GIOVA ALL’EREDITÀ

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
ingegnere, general manager di Clevertech Group Spa, Cadelbosco di Sopra (RE)

Clevertech Group, con sei filiali nel mondo (in Nord America, India, Francia, Asia del Sud, UK e Est Europa), si avvale di oltre 250 collaboratori e di tanti professionisti esterni, che lavorano in team per realizzare soluzioni integrate di fine linea per grandi industrie di settori come il food&beverage, l’home care, il pet food e il personal care.

Alla fine degli anni ottanta, lei era un giovane ingegnere che, dopo avere fondato la Clevertech (nel 1987) e automatizzato gli scatolifici italiani, ha visitato in breve tempo la maggior parte degli scatolifici sparsi per il mondo. Qual era e qual è tuttora l’idea che sta alla base del suo progetto di automazione industriale? E in che modo questa è divenuta un’idea che ha trasmesso ai suoi figli, che ora sono in azienda insieme a suo genero?

Ringrazio il direttore editoriale della rivista “La città del secondo rinascimento”, Anna Spadafora, e il presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Emilia Area Centro, Marco Moscatti, per questo bellissimo momento che abbiamo a disposizione per scambiarci le nostre esperienze d’impresa e di vita. E devo dire che ritrovo molti tratti della mia esperienza in quelle dei relatori che mi hanno preceduto.

Mio padre non ha avuto la fortuna di trasmettermi la sua arte perché non ho fatto il contadino come lui, però mi ha trasmesso il senso del dovere, la tenacia e la voglia di persistere nelle sfide della vita. Negli anni ottanta, dopo la laurea in ingegneria meccani ca, mi sono trovato a vivere un’esperienza importante in uno scatolificio, una fabbrica che produceva le scatole metalliche per la conserva di pomodoro. L’azienda stava attraversando una fase di grande evoluzione tecnologica, dettata soprattutto da quello che all’e poca era il cruccio principale degli imprenditori: automatizzare le linee di produzione per allontanare la contestazione sindacale dalle fabbriche. Erano lontani dall’obiettivo di ottenere un payback grazie all’innovazione tecnologica, che invece sarebbe stata una priorità negli anni successivi.

L’esperienza di quel periodo ha dato alla mia vita una svolta che si è rivelata fondamentale: nella lavorazione delle scatole metalliche, la de alimentazione delle macchine di una linea e l’alimentazione della successi va avveniva manualmente, quindi le persone per otto, dieci ore al giorno spostavano, a un ritmo di circa due volte al minuto, un peso che variava dai 15 ai 20 chilogrammi. Immaginiamo alla fine della giornata il livello di affaticamento degli operai. Allora, studiammo un tipo di automazione che, attraverso piccoli meccanismi, azzerava completamente la fatica fisica del personale operante sulla linea, che doveva limitarsi a controllare i flussi della produzione. Naturalmente, questo riscosse subito un grande successo, anche perché in un reparto erano impiegate cinque o sei persone, anziché quindici.

A quel punto, spinto dal mio amor proprio e dalla mia voglia di fare, nacque l’idea di verificare lo stato dell’arte degli scatolifici sparsi in tutto il mondo. Sapevo che ce n’era una quantità considerevole, ma non immaginavo che, soprattutto negli Stati Uniti, così come in Inghilterra e in Germania, queste lavorazioni venissero eseguite ancora a mano. Per cui incominciammo con grande entusiasmo a proporre l’automazione alle industrie di vari paesi, anche se l’avviamento della nostra attività non fu affatto semplice, perché non aveva mo calcolato che, essendo ancora una piccola azienda, non potevamo godere della fiducia di grandi strutture industriali, che avevano stabilimenti con oltre mille persone. Comunque, ciò nonostante, con immenso sforzo, siamo riusciti costantemente a guadagnare le nostre fette di mercato. In che modo? Principalmente incontrando clienti e avvalendoci di tecnici e agenti che hanno supportato la nostra espansione in Italia e all’estero.

A proposito dell’incontro, lei è riuscito a coinvolgere i suoi figli nell’azienda a partire dal suo gusto dell’ospitalità…

Siccome non mi piaceva andare tutte le sere al ristorante per accompagnare i clienti, gli agenti e i tecnici, spesso chiedevo a mia moglie di ospitarli in casa. E questo ha contribuito a trasmettere all’interno della famiglia molti elementi che facevano parte della vita dell’impresa e della sua cultura, a farli conoscere ai miei figli, Umberto, Enrico ed Elena, anche quando erano piccoli. Man mano che crescevano, mi accorgevo che assimilavano sempre di più le problematiche del lavoro, nonostante mia moglie e io ci fossimo sempre guardati dal suggerire loro di fare un tipo di studi che un domani sarebbe potuto servire ad aiutare il padre nell’azienda, per ché non volevamo in nessun modo ipotecare il loro futuro, ma soltanto dare un esempio. Tant’è che il figlio maggiore, Umberto, mi sorprese quando, alla fine del liceo scientifico, decise di fare ingegneria meccanica. Il secondo, di due anni più giovane, si è laureato in economia e commercio, invece mia figlia in architettura. La cosa più bella è arrivata quando Umberto si è laureato e ha incominciato a guardarsi intorno, visitando la Barilla, la Bormioli, la Lombardini e altre grandi aziende reggiane. Premetto che all’epoca la Clevertech non aveva le dimensioni attuali, fatturava appena 7-8 milioni di euro e con grande fatica. Dopo quindici giorni di ricerca, una mattina gli chiedo: “Beh, hai deciso? Hai trovato qualcosa che ti piace?”. Lui ha iniziato a fare l’elenco delle opportunità: “Barilla mi ha fatto un’offerta molto interessante, però ci sto pensando; anche alla Bormioli mi hanno fatto una bella offerta, ma ci sto pensando; poi sono stato anche in Lombardini”. “E allora?”, lo incalzo. E lui: “Mi piacerebbe venire a lavo rare in Clevertech”. Quella mattina con grande meraviglia e soddisfazione l’ho accompagnato in azienda e quello è stato il suo “ingresso” formale, ma in realtà era avvenuto tanti anni prima, quando aveva deciso di laurearsi – e lo ha fatto molto velocemente – in ingegneria meccanica. Enrico invece non ha avuto neanche bisogno di cercare altre strade, ha dato subito la sua disponibilità, prima ancora di laurearsi. E mia figlia ha avuto la fortuna di fidanzarsi con un amico dei suoi fratelli, anche lui ingegnere meccanico, che è stato “obbligato”: “Se vuoi sposare nostra sorella, devi venire a lavorare con noi”, gli hanno “intimato”.

La nostra è una bellissima storia, perché le cose sono intervenute a tempo debito: i figli sono entrati in azienda proprio nel momento in cui stava cambiando lo stile dei rapporti con i clienti. Io mi sono occupato dello sviluppo commerciale per tanti anni e ho avuto sempre la fortuna di parlare con i titolari delle aziende, con cui s’instaurava un dispositivo di stima e amicizia schietto e leale, ci s’intendeva, ci si dava la mano, per cui l’ordine e l’offerta non erano l’unico argomento della conversazione, anzi, si raggiungeva l’accordo economico con grande leggerezza. Con il passaggio generazionale, invece, non c’erano più i vecchi titolari ai vertici delle aziende, ma i figli o, spesso, i manager e i funzionari. Inoltre, noi avevamo sempre più bisogno di lavo rare con multinazionali molto strutturare, come Procter & Gamble o Nestlé, con cui avrei avuto qualche difficoltà di comunicazione perché utilizzano i nuovi media e strumenti moderni di presentazione in 3D, con cui i miei figli avevano dimestichezza fin dagli anni dell’università.

Adesso sono loro in prima linea: io sono sempre stato amministratore delegato o presidente dell’azienda e mi sono rivolto ai collaboratori sempre con lealtà e schiettezza, senza mai venire meno al mio ruolo di datore di lavoro. Da quando sono intervenuti loro, ho dovuto cambiare notevol mente il modo di relazionarmi, perché è assolutamente importante lasciare loro lo spazio necessario per svolgere la funzione che prima svolgevo io, mentre io rimango a “sorvegliare” il lavoro a un livello differente rispetto a prima. E la fortuna è stata che, avendo caratteri e competenze abbastanza differenti fra loro, hanno trovato la loro collocazione molto velocemente e abbiamo raggiunto il nostro scopo. Anch’io, come Paolo Moscatti, sto resistendo a non lasciare l’azienda, ma pian piano sarà inevitabile che accada.

Concludo con una nota a proposito dell’ospitalità: racconto spesso l’aneddoto del cliente olandese al quale avevamo fatto tutti gli onori di casa quando veniva in Italia. Eppure, quando sono andato a trovarlo con il nostro agente greco, siamo stati nella sua azienda tutta la mattina e lui ci ha offerto solo un bicchiere d’acqua, neanche un caffè. Non è così frequente in altri paesi trovare l’accoglienza che noi italiani riserviamo ai nostri clienti, portandoli a pranzo o a cena e facendo loro condividere anche momenti in famiglia. Ma questo stile è stato vincente e ci ha aiutato a ottenere risultati eccellenti in tanti mercati, soprattutto con alcuni clienti francesi e americani, con cui siamo tuttora in ottimi rapporti, che sono veramente felici e apprezzano moltissimo la nostra ospitalità quando vengono a farci visita.

A proposito di ospitalità, anch’io ho avuto il piacere d’incontrare sua moglie, Suella Becchetti, la quale mi ha presentato la propria madre, Rosa Tognoni, una centenaria intorno alla quale lei ha scritto il libro Un viaggio lungo cent’anni, con la mia prefazione, che racconta aneddoti e vicende di tanti personaggi di Grassano (piccolo borgo del reggiano affacciato sui castelli di Matilde di Canossa), dove lei abitava.

A volte ci chiediamo cosa resti dell’impresa e come valorizzare le cose che si fanno. Ebbene, la scrittura e il libro sono strumenti di valorizzazione inestimabili.