LA CENSURA COME DISPOSITIVO DI GOVERNANCE

Qualifiche dell'autore: 
ordinario di Diritto penitenziario e di Istituzioni di diritto penale, Università di Bologna

Quando sono stato invitato a questo incontro (Della origine delli volgari proverbi. Censura, sessualità, scrittura, Bologna, 8 luglio 2008) mi sono domandato dove un penalista potesse incontrare Aloyse Cynthio de gli Fabritii e il suo Libro della origine delli volgari proverbi (Spirali), cioè dove potesse incontrare quella che è stata definita la prima censura preventiva della stampa. Questa censura si dà all’incrocio di tre decisive emergenze, tutte, significativamente, all’inizio della modernità, in particolare agli inizi del XVI secolo. La prima riguarda l’invenzione della stampa: con la stampa a caratteri mobili, il libro si fa economicamente accessibile e si incomincia ad avvertirne la pericolosità, in ragione diretta del potenziale universo dei suoi lettori. La seconda si verifica quando incomincia a modificarsi anche il lessico, che diventa sempre più comprensibile nella forma scritta volgare. Con la diffusione della Bibbia, dei Vangeli e via via di altri testi religiosi, per la prima volta, nella cattolicissima Europa, si può leggere il libro senza la mediazione e l’interpretazione dell’autorità ecclesiastica. La terza emergenza interviene con la propagazione della peste riformista, che contagerà l’intera Europa proprio attraverso la stampa a caratteri mobili e la diffusione dei testi religiosi.

La censura preventiva e i testi messi all’indice dei libri proibiti fanno parte, insieme all’Inquisizione, degli strumenti utilizzati dalla Controriforma, in uno scontro che allora rimase a lungo incerto e che rallenterà l’affermazione della modernità.

Tuttavia, proprio nella giurisprudenza, in questo stesso periodo si registrerà il primo tentativo di uscita dal diritto penale medievale, fondamentalmente mite e di natura prevalentemente compensatoria nei confronti del danneggiato. Soltanto nel XVI secolo incominciarono a emergere i famosi crimina lesae maiestatis, in cui il delitto non risiede nel danno determinato all’altro, ma nella disobbedienza all’autorità. Per la prima volta, si puniscono come delitti azioni considerate d’infedeltà o di disobbedienza all’autorità. Diventa soggetto privilegiato della repressione penale non tanto chi viola la legge vigente, ma chi non può offrire – come usa tradursi l’espressione tedesca del penalista contemporaneo Jakob – “sufficiente fiducia cognitiva delle proprie azioni”, in altre parole, colui di cui non ci si fida. Da ora in avanti, chi non è più considerato affidabile, chi non merita la nostra fiducia, è penalmente pericoloso: tra gli altri, sicuramente chi scrive libri e per questo solo è temibile, perché è il libro stesso, strumento appetito da un mercato ancora vergine, ma già vasto, che chiede, invoca, urla la voglia di potere essere letto e, finalmente, letto da soli. Dunque, come fidarsi degli scrittori? Vanno regolamentati il libro e la sua diffusione. Si introdusse così la censura preventiva, sia ecclesiale sia dei principi, i quali fecero anch’essi in molti casi divieto di mettere alle stampe qualsiasi scritto potesse delegittimare il loro potere.

La censura preventiva, tuttavia, nella maggior parte dei casi non fu in grado d’impedire l’evento maggiormente temuto: la diffusione del libro e di ciò che poteva minacciare l’autorità. Questa circostanza presenta un’altra, profonda analogia con il sistema più generale della giustizia criminale, che si esprime, in modo manifesto, con finalità preventive: contrastare la criminalità, contenere la recidiva. È sotto gli occhi di tutti però che l’efficacia tanto generale quanto speciale preventiva della legge penale lasci più di un dubbio. Eppure, nonostante tutto, il diritto penale esiste, nonostante professi ufficialmente una fede che non può essere empiricamente suffragata. Lo stesso vale per la censura preventiva. I libri vietati circoleranno, eccome, nell’Europa della modernità, in barba alla censura e in barba, anche, all’imprigionamento degli stampatori.

La questione dunque non è centrata sull’efficacia della censura rispetto allo scopo manifesto di impedire, o anche solo di contenere, la produzione e la diffusione di idee e di scritti indesiderati. Penso piuttosto che censurare sia, e non è detto che non lo sarà di nuovo in futuro, una sorta di dispositivo di governance, come si usa dire oggi, in grado di strutturare campi di azione collettiva. Per intendere questa nozione di dispositivo di governo, basta ritornare al libro, al libro stesso di Cynthio. Cosa c’era da temere, quindi da censurare, in queste migliaia di versi? È possibile che tutto, come si narra, sia stato generato dalla diatriba con alcuni frati, che poi, a causa del loro trafficare con l’autorità, ha portato alla censura del libro. Tuttavia, credo che questa sia la contingenza. Il libro è esplicitamente messo all’indice perché accusato di oscenità, e per oscenità viene censurato. Qui non c’era il pericolo di diffusione di eresie o di teorie volte a delegittimare il potere della Chiesa o del principe. Qui si accusa uno scrittore di scrivere in maniera scurrile, di scrivere di pornografia in senso etimologico, di scrivere intorno, in particolare, al sesso. Eppure, la pornografia a scopo ludico è stata riconosciuta per lungo tempo un genere letterario: scrivere del piacere della carne e illustrarlo è un esercizio assai prossimo a quella che viene chiamata arte totale, assoluta. Non si tratta quindi della legittimità poetica della pornografia, bensì del fatto che l’arte pornografica, in ciascuna sua forma, può essere accettata a patto di non essere divulgata. La letteratura pornografica, come qualsiasi altra forma di manifestazione d’arte pornografica, è lecita fintanto che non si divulga, non si democratizza, cioè non confligge con quelle forme sociali fondate sulla disciplina delle pulsioni sessuali, come ci ha insegnato l’ultimo Foucault. Il governo della sessualità è stato quel formidabile dispositivo disciplinare che ha consentito, o ha ritenuto di consentire, il governo delle masse e degli individui.

A seguito di queste considerazioni possiamo comprendere l’ossessione del censore, soprattutto quando giunge a vertici inusitati di fantasia. Ma, come abbiamo visto, la diffusione della pornografia si alimenta e diventa sempre più vorace, a partire dalla censura stessa. Se, tuttavia, la censura non ha potuto impedire la diffusione, anche a livello popolare, dell’osceno e del pornografico, è riuscita in un esercizio più complesso: quello di delegittimare l’osceno e il pornografico, di trivializzare la questione del sesso. In questo si palesa la volontà politica egemone, capace d’imporre un ordine, una gerarchia, uno spazio alle cose, ossia di strutturare un campo di azione attraverso le leggi, esattamente come avviene nella legge penale, che non è interessata a impedire la criminalità, e non ne è comunque capace, ma è in grado di definire alcune condotte come criminali, anche in quanto ne consegue una particolare strutturazione dei rapporti sociali e del governo di questi stessi rapporti.