LA SCRITTURA RIFUGGE I GENERI

Qualifiche dell'autore: 
scrittore, traduttore, saggista

Capita assai di rado che riveda la luce un’opera come questa, di sontuose proporzioni, di singolarissimi contenuti e forma, e che a lungo, per ben cinque secoli, sia rimasta più che dimenticata, volutamente ignorata, accuratamente nascosta, tenacemente deprecata. Per ragioni estranee al suo vigore poetico.

Quanto alla descoverta, ne va dato universale merito alla casa editrice Spirali, che ha intuito l’importanza dell’opera e l’ha appunto descoverta. E lo dico in veneto, perché veneziana è stata la vicenda, sostanzialmente veneziana la lingua in cui si è proposta. 

L’opera di Aloyse Cynthio de gli Fabritii, il Libro della origine delli volgari proverbi, che qui chiamo la Cinzieide per assonanza con grandi epos dell’antichità classica, impone tutta una serie di riflessioni. In primo luogo, sulla censura e, di conseguenza, sulla differenza, essenziale ma forse di ardua percezione, tra Letteratura e Scrittura. E, di non minore incidenza, una riflessione sul significato di Rinascimento. Anzi, di “Rinascimento e il suo doppio”.

Fra il XVII e il XX secolo, Cinzio era stato letto e deprecato. Apparteneva all’altra faccia del Rinascimento ufficiale, che è quello per lo più insegnato nelle scuole. Era cioè un interprete di quello che è stato definito Controrinascimento. Fin dagli esordi del Rinascimento, si era verificata, con il ritorno agli ideali dell’antichità classica, la riscoperta di maestri della letteratura erotica appunto classici. Fu il nuovo clima creato dal movimento rinascimentale che, riportando l’umano in terra, ridandogli carne e sangue, permise il fiorire in Italia di una letteratura erotica che assunse ben presto caratteristiche particolari, e fu prodotta in qualità e quantità tali da non avere paragoni in altri paesi.

“Carnale”, il Rinascimento fu perciò stesso esplicito. Si riconobbe la carnalità del Cristo, la cui umanità spesso prevalse, nella raffigurazione, sulla divinità, e si cominciò a raffigurarlo nudo e addirittura in trionfante erezione persino sulla croce e al momento della Resurrezione, a significarne la rinascita. Gli organi sessuali, gli accoppiamenti normali, abnormi o mostruosi, vennero chiamati col loro nome e puntigliosamente descritti.

Il Rinascimento fu tale a tutti i livelli sociali: villani e signori, poveri e ricchi, plebei e nobili. Donde una rilassatezza dei costumi, un’atmosfera sensuale, gagliarda, nient’affatto estenuata e decadente. Non più le delicatezze e sfumature del troubadorismo e dell’angelicamento dell’amata, ma anzi il recupero della dimensione giocosa e piccante dell’antichità classica. Il Rinascimento, anzi il suo doppio, conteneva ben altri fermenti, era caratterizzato da una giovanile, crudele impertinenza, aveva la pretesa di riscrivere la storia del mondo, di far credere che il sole sorgesse per la prima volta sul primo mattino della nuova età dell’oro e la presunzione, apparsa quasi subito imperdonabile, di pensare che tutto si potesse mutare e rifare, reinserendo la paganità nel cristianesimo, immaginando città solari, fondendo utopie e ridando legittimità al fantastico.

La Cinzieide rientra nella vasta e benemerita categoria dei “libri maledetti”, espressione gloriosa di un periodo d’irrecuperabile felicità dell’invenzione poetica, artistica, culturale italiana. E la controrivoluzione consistette nel massiccio intervento dei poteri confessionali che riuscirono ad averla vinta persino nella Repubblica di Venezia, restia a cedere alle pretese di Roma, ma che alla fine dovette inchinarsi a quel Controrinascimento che avrebbe avuto il suo culmine nel Concilio di Trento, concluso nel 1563 e che segnò il definitivo trionfo della censura, della castrazione metodica e accanita: la scure che è piombata sulla produzione poetica, narrativa, artistica in generale, con conseguenze che continuano a tutt’oggi.

La ragione ne è facilmente comprensibile. La produzione letteraria umanistico-rinascimentale, e l’editoria che ne aveva accompagnato gli sviluppi, ignorava quelli che oggi si definiscono generi. Non c’erano autori specializzati in questa o quella categoria produttiva. Mentre oggi capita, è anzi la regola, d’imbattersi in autori e autrici dediti al giallo, al noir, alla letteratura di viaggio, alla pornografia o al romanzo d’amore, fin dal Dolce Stil Novo e dai rimatori siciliani distinzioni del genere sarebbero improbabili. Conosciamo autori di opere erotiche che sono insieme autori di opere devozionali. Bastano due esempi: a Dante giovane, ancora imbevuto di cultura francese o meglio franco-toscana, si devono Il fiore e il Detto d’amore, forse parafrasi del Roman de la Rose, di contenuto esplicitamente erotico; e allo stesso Dante della maturità dobbiamo il poema della cristianità per eccellenza, la Commedia. L’altro esempio è l’Aretino, autore di opere come la Puttana errante e le Sei giornate contenenti il Ragionamento della Nanna e della Antonia, ma anche di Sette salmi de la penitenza di Davide, della Passione di Giesù e della Canzone della Vergine. Ne conseguiva che la censura, avendo di mira autori e opere, condannava indifferentemente al silenzio e a volte al rogo i libri e gli scrittori contrari agli insegnamenti della teocrazia dominante, fossero o meno erotici, oltre che blasfemi. Ne è derivato un inaridimento della produzione in generale. 

Gli autori sono stati minacciati e intimiditi. La censura infatti non è semplicemente una serie di imposizioni esplicite, dirette, appositamente formulate, ma anche e soprattutto un coacervo di atteggiamenti che sono il frutto di minute e minuziose imposizioni inesplicite, indirette, marginali. La censura moderna, attuale, non ha quasi più bisogno di proibizioni legali: è insita nel modo di abitare odierno, nel modo di lavorare e produrre, nel fatto che l’aspetto produttivo ha assunto un’importanza che non aveva prima, che il negotium ha scacciato e messo al bando l’otium, che il binomio ora et labora non ha più senso perché l’orare (cioè il meditare, il perdersi nella contemplazione) non ha più spazio in un mondo dove il tempo è denaro.

“Si perde tempo”: questa è la censura introiettata, il sentimento di colpa che ci prende quando ci dedichiamo a un non-lavoro, ad attività improduttive. Donde, tra l’altro, l’impossibilità di concepire l’erotismo come un’arte. Fare della sensualità una condizione diffusa – ma chi ci mantiene? Donde, anche, la specializzazione: prostitute e prostituti dediti esclusivamente ai misteri della trivialità, e tutti gli altri a deprecare e cercare di raggiungere la perfezione “amatoria” con il ricorso a manuali o a medicamenti, o andando a consultare il sessuologo.

Distinguiamo dunque tra censura sensu lato e “censura” in senso ristretto, vale a dire intesa come imposizione.

Questa seconda è nata con la Controriforma e la Riforma. Almeno, così si legge di solito. Ma non è esatto. La “censura” esiste in ogni società gerarchica, vale a dire gruppo umano in cui un ceto dominante ingiunga-proponga ciò che si deve fare; e per poter fare bisogna poter dire, dire a se stessi in primo luogo. Il fare è pensiero tradotto in azione. E il ragionamento dei “censori” è semplice: se castriamo la libertà del singolo, se sostituiamo la sua censura-traduzione con la proibizione, avremo in mano il suo cuore, la sua anima, la sua mente.

Sto parlando, in altre parole, di Letteratura contrapposta alla Scrittura. Una inconciliabilità che si dilata all’intera produzione non utilitaristica, quella che viene detta “arte”, e si può ben parlare di musica-letteratura, di danza-letteratura, persino di traduzione-letteratura. Letteratura vuol dire rispetto dei comandamenti sintattico-grammaticali. Vuol dire obbedienza al così si scrive, così si parla, così si pensa se si vuole essere accettati, lodati, ricompensati. La letteratura è il Discorso occidentale, l’affermazione del logos a scapito di tutte le altre facoltà intellettive umane. E fin dai tempi antichi, la letteratura ha trovato espressione in un fondamentale passo dell’Orestiade di Eschilo: “Ah, incomprensibile come una rondine è la lingua oscura dei barbari. Come ridurla, parlando, a ragione?”. La letteratura ha la pretesa di inglobare, nella sua attività di normalizzazione e repressione, tutto ciò che attiene alla poiesis: tutto va spiegato, l’arte va capita, sentirla è del tutto secondario. La produzione estetica deve avere un senso. Uno scopo. L’arte deve confondersi con l’impegno, volta a volta sociale, politico, economico…

L’opera comica, l’irriverente buffonata di Cinzio, è invece Scrittura. Se la letteratura predica di pulpiti, impone dalle colonne dei giornali, propala le notizie opportune dagli schermi, la Scrittura rifiuta qualsiasi tentazione, e anche solo il sospetto, di riduzione all’uno. Non è monistica. Non è monoteistica. Rifugge dall’elaborazione sistematicamente preordinata, si ritrae di fronte alla proposta di un arco di sviluppo nel segno dell’obbedienza, di una valutazione a opera di giudici letterari.

La Scrittura è infedele, non ha sposo né sposa, si sottrae al divieto di riconoscere la Parola che è in essa, che è in noi, che è essa, è noi. La fa in barba alla perentorietà del cogito, del Discorso, conosce la scissione insanabile tra mentalità mitopoietica e mentalità critica.

L’opera di Cinzio risponde, mi pare, a questi aspetti. L’intento satirico e ironico è dichiarato dall’autore fin dalla Prefatione, richiamandosi a modelli come Aristofane, Menandro, Plauto e Terenzio. Sapendo ciò che doveva aspettarsi, persino nella “liberale” Venezia – in cui pure non era messo al bando l’antipapismo dei riformisti che non avevano ancora ceduto alla tentazione della sistematicità neodogmatica –, Cinzio reitera il celebre passo di Marziale: “Lasciva est nobis pagina, vita proba”. Sa di avere usato “voci et… vocaboli… che toscanamente non si trovano”, ma non per questo si sente “delle volgari leggi trasgressore”. 

Non va dimenticato che la letteratura, specie l’impegnata, è sempre al servizio del potere, e contiene in sé il germe della censura. Anzi, la censura moderna preferisce rifuggire dalle costrizioni e dalle condanne legalistiche, semplicemente nascondendosi nell’esaltazione della pseudodemocraticità della pagina accessibile a tutti, pagina che rifugga da oscurità e da palese disobbedienza alle limitazioni canoniche. La letteratura, in quanto sia accettabile per definizione, cioè “buona”, diviene così la maschera della neocensura. Che può sempre trasformarsi in coattiva. Basta poco, basta dire che il rifiuto delle norme pseudodemocratiche della letteratura sono state violate. Il crimine imputabile è facile da imbastire. 

L’opera di Cinzio è dunque attuale per molti aspetti. Innanzitutto perché, optando per un linguaggio zeppo di intrusioni non solo veneziane, ma variamente dialettali, latineggianti, ha inventato un’opera frutto in larga misura di invenzioni, fitta di anacoluti, tutta paratattica, intenta a proporre continue dislessie, un’opera deliziosamente imperfetta, imprevedibile. Senza equivalenti non solo nel momento in cui è venuta in essere.

È proprio questo programmatico non rispetto delle norme letterarie e delle preoccupazioni moralistiche a fare della Cinzieide un atto di rifiuto e accusa della censura, senza che l’autore debba dichiararlo espressamente. 

Ed è sempre questo a rendere più che mai attuale l’opera. Al lettore odierno essa svela il carattere repressivo della normalità d’ogni tempo e luogo, e la sua pretesa di essere necessaria e ineluttabile.

Le storie, le favole che Cinzio racconta in versi non appartengono a un genere. È la letteratura che impone i generi. La Scrittura spontaneamente ne rifugge. La Cinzieide non risponde ad alcun genere.