IL GUSTO AL SERVIZIO DELL'EQUILIBRIO NUTRIZIONALE

Qualifiche dell'autore: 
esperta di cultura dell’alimentazione, chèf dell’Osteria del Viandante, Rubiera (RE)

Nel 1999, lei ha lasciato l’attività di docenza di italiano e latino, che aveva svolto dal 1976, per dedicarsi alla cucina in qualità di chèf del locale di famiglia, l’Osteria del Viandante a Rubiera (Reggio Emilia). Ospitata dalle sontuose sale di un’antica fortezza militare del XII secolo e recensita dai principali quotidiani, settimanali, periodici e testate enogastronomiche, l’Osteria è testimonianza di una cucina che dalle sue antenate dell’Ottocento è giunta fino a noi con i suoi piatti della memoria, offerti in sala da Roberto Gobbi, suo marito, accanto a tagli di carne particolari e inusuali, di cui è uno dei massimi esperti nel nostro paese.

In qualità di studiosa di cultura dell’alimentazione, scrittrice e curatrice di varie opere, fra cui il recente Messale dei Templari di Reggio Emilia, che getta nuova luce sul Medioevo e la sua dietetica, che cosa può dirci sul gusto della salute?

Il termine gusto inteso come sapore indica non soltanto le sensazioni individuali della lingua e del palato ma anche, e soprattutto, il concetto filosofico di sapere (il cui etimo ha la stessa radice di sapore) come valutazione di ciò che è buono o cattivo. Da questo punto di vista non è più una realtà soggettiva e incomunicabile bensì collettiva e condivisa. È un’esperienza di cultura, frutto di una tradizione e di un’estetica che la società in cui viviamo ci trasmette fin dalla nascita e che cambia nei secoli. Nella dietetica medievale, per esempio, ciascun elemento della natura, compreso l’uomo, rispecchiava la totalità del creato e dell’universo ed era definito in base alla teoria degli umori: caldo, freddo, umido o secco. Anche gli alimenti erano valutati in base al fatto di essere caldi, freddi, umidi o secchi: occorreva dunque accostare cibi con proprietà differenti per stabilire un equilibrio, in modo da creare armonia e salute. Queste pratiche si basavano sul principio del gusto individuale, espressione del temperamento del singolo, rendendo così il piacere, il gusto, un’esigenza dietetica. Il buono da mangiare e il buono per la salute erano indissociabili. Per esempio, l’abbondante uso di spezie aveva anche una forte valenza dietetica (favorire la digestione, come sostenevano i trattati del tempo) oltre che sociale (ostentare ricchezza): entrambi i fattori (scientifico e simbolico) finivano certo per condizionare i caratteri del gusto, costruiti, come sempre, dalla combinazione tra abitudine (pratica) e cultura (apprendimento). Il moderno concetto di salute come risultato di un’alimentazione equilibrata affonda quindi le sue radici nei sistemi filosofici medievali, di cui troviamo traccia in tutti i Tacuina sanitatis dell’antichità: per esempio, nell’accostamento prosciutto-melone, il melone, che ha umore freddo e umido, corregge la secchezza e il calore del prosciutto, in tal modo i due alimenti risultano buoni al gusto e anche alla salute.

Nel corso dei secoli è cambiato non solo il gusto, ma anche il criterio con cui un cibo viene considerato sano: nel Medioevo si assumevano alimenti che avevano tempi di frollatura che noi consideriamo nocivi per il sistema digestivo; oggi, grazie alle conoscenze scientifiche e alle strutture preposte a qualificare sani i nostri prodotti, non è difficile avere sulle nostre tavole cibi di qualità eccellente. Infatti, consideriamo sì il gusto un generatore di piacere ma al servizio dell’equilibrio nutrizionale, strettamente legato alle esigenze sociali, economiche e geografiche. E mi piace porre l’accento soprattutto sui prodotti del nostro territorio e di stagione: non dimentichiamo che, spesso, il cibo si “guasta” quando viene reperito fuori stagione o proviene da paesi in cui vengono utilizzati additivi chimici che possono destabilizzarne le proprietà nutritive e salutari.

Tra l’altro, fondando con altri la società Odisseo, lei è divenuta promotrice di eventi che valorizzano le tradizioni e i prodotti del territorio…

Quando parlo di territorio non mi riferisco necessariamente alla ristretta area della città o della regione in cui si vive, bensì all’intero territorio italiano, che è privilegiato rispetto ad altre aree d’Europa. Per quanto riguarda la tradizione, oserei dire che non esiste il prodotto tradizionale né la cucina tradizionale. Il termine tradizione deriva dal latino tradere che vuol dire “tradire”, ed è davvero un tradimento; basti pensare alla pasta al pomodoro, prodotto che è arrivato dopo la scoperta dell’America e all’inizio era considerato addirittura nocivo e che oggi è il piatto simbolo che ci identifica all’estero.

Io credo che la cucina sia come un albero con radici profonde nella terra in cui nasce, ma le radici ramificano ed espandendosi accolgono prodotti di altre terre. Le radici sono la linfa vitale (originata da sorgenti diverse, talora lontane) di cui la nostra identità si è alimentata nel corso del tempo. Sono gli elementi, gli “ingredienti” che interagendo fra loro hanno consentito a questa identità di formarsi e di modificarsi. Le radici sono il luogo in cui la nostra storia si mescola a tante altre storie. Pensiamo al Medioevo con i suoi pellegrinaggi: l’uomo viaggiava e i cibi viaggiavano con lui, fino a formare da un territorio all’altro quel crogiuolo di culture e regionalità che costituiscono il patrimonio culturale italiano. In Italia siamo stati capaci, in maniera grandiosa e quasi unica, di unirci attraverso la varietà delle regioni, creando una globalizzazione di idee e prodotti già dal Medioevo. Villaggio globale, allora come ora, dove l’identità sopravvive in virtù dello scambio.

Ecco perché, a proposito di un piatto della cucina italana, preferisco parlare di memoria anziché di tradizione, perché le memorie sono definite, pur nella varietà, appartengono a un nucleo, a un luogo, eppure differiscono l’una dalle altre anche se si parla dello stesso prodotto; pensiamo ai cappelletti: in ciascuna famiglia, ciascun condominio, dalla pianura alla montagna e alla collina, cambiano nella forma, nel pesto, nella procedura.

La memoria gioca un ruolo importante rispetto alla tradizione, che spesso è un termine ideologico per definire un territorio, ma nell’alimentazione non esiste la tradizione, è la cucina il vero crogiuolo delle culture e degli alimenti. La storia della cucina è affascinante, pensiamo ad esempio ai ricettari, fino al Settecento nelle ricette non erano indicate le dosi degli ingredienti perché erano rivolte al cuoco professionista, che aveva la sapienza nelle mani…

E mai come nel suo caso la cucina è una bottega in cui interviene la mano intellettuale…

“Ha una buona mano”, si dice di un artista come di uno chèf. La mano sembra avere una vita propria che deriva anche dalla consuetudine di veder fare, nella bottega come nella cucina. Da quando, nell’Ottocento, hanno incominciato a riportare anche le dosi degli ingredienti, possiamo dire che le ricette sono tutte uguali, ma la differenza la fa proprio la mano.