LA CREATIVITÀ CONTRO IL FONDAMENTALISMO

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scrittrice, medico psichiatra e membro del Consiglio superiore delle arti e delle scienze sociali del Cairo

Durante il regime di Sadat, nel 1981, lei è stata imprigionata per le sue battaglie e i suoi scritti sulla situazione delle donne nelle società arabe e, in modo particolare, in quella egiziana. Da allora, il suo nome compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni terroristiche. Oggi vive negli Stati Uniti, e allo Spelman College di Atlanta insegna, come professore visitatore, creatività e dissidenza. Che relazione c’è tra questi due termini?

Quando le leggi che governano la società in cui si vive sono ingiuste, non bisogna assoggettarvisi: questa è la dissidenza. Quando si è dissidenti non si accettano né inganni né ingiustizie: ci si ribella, attraverso la musica, gli scritti, i dipinti. I creativi devono essere dissidenti, perché sono sensibili ai paradossi e hanno un “occhio” molto sensibile nel cogliere le contraddizioni.

Il concetto di creatività è un concetto ampio, che include il corpo e la mente. Si può mettere la creatività nell’amore, nell’amicizia, nell’attività politica, nello sviluppo di nuove modalità di reazione e di resistenza all’oppressione. La creatività è qualcosa di psicologico, di sociale, di fisico, di mentale, di politico. Non è soltanto un dono divino, concesso a pochi uomini e a sempre meno donne. Tutti siamo creativi, ma la nostra capacità di creare viene sminuita, ridotta e soffocata dai sistemi educativi, religiosi, politici e economici. Per questa ragione, alcuni fuggono e continuano a essere creativi, altri invece non riescono più a creare.

Come si possono insegnare la dissidenza e la creatività?

La dissidenza è un’esperienza da vivere, non si può insegnarla. Occorre vivere l’ingiustizia e ribellarsi. Se non posso insegnare a essere dissidenti, posso però disfare i pregiudizi imposti dal sistema educativo. Posso incoraggiare gli studenti a scoprire la ribellione dentro di loro. Posso incoraggiarli ad avere una mente critica, a opporsi e dire “no”. Fin da bambini non ci incoraggiano a sviluppare la nostra mente critica, per timore dapprima di Dio, poi dell’autorità dei genitori, poi ancora della scuola e dei professori e infine per timore dell’autorità dello Stato. Quando ho incominciato a ribellarmi a Dio, ero ancora una bambina: una femmina nata in una famiglia povera, che percepiva che il fratello godeva di maggiori diritti soltanto perché era un maschio e che a scuola le bambine ricche erano privilegiate. Mi chiedevo: ma perché Dio preferisce i maschi? Perché la figlia del sindaco viene trattata meglio di me? La risposta era: sono le regole della vita. Ma se questo non potevo accettarlo ieri, tantomeno posso accettarlo oggi. Ecco perché la prima lettera della mia vita l’ho scritta a Dio: “Se tu non sei giusto, io non sono disposta a crederti”, gli ho scritto. “Sono uguale a mio fratello. Sono persino più brava di lui a scuola, quindi devo avere maggiori diritti di lui. E sono anche migliore della mia compagna di classe”, quella ricca, il cui padre aveva anche il potere politico. “Io sono la più brava della classe. Lei è pigra. Perché deve essere privilegiata?”. Mi ribellavo. Tutti i bambini si ribellano all’oppressione. La dissidenza e la creatività sono parte della natura umana. La paura di Dio e del potere che domina sulla Terra ci hanno però derubati della dissidenza e del potere creativo. Ci educano alla religione. Ci educano a frequentare la chiesa o la moschea. Ci educano ad avere paura di Dio e del fuoco dell’inferno. E questo ci rende ciechi nei confronti dei paradossi, in particolare di quelli divini. Abbiamo paura di guardarli e perdendo la capacità di vederli perdiamo anche la sensibilità e la creatività. Ma quando finalmente li riconosciamo, la conoscenza è irreversibile. Da quando ho scoperto i paradossi, non sono più riuscita a tornare all’ignoranza. Ho lottato per avere più conoscenza, più creatività, più dissidenza.

Dunque il peggior nemico della creatività è il fondamentalismo religioso?

Il fondamentalismo religioso è un fenomeno universale e non soltanto islamico, anche se spesso si ritiene che il nemico sia il fondamentalismo islamico. Tuttavia, il problema è politico e non religioso. Dopo avere studiato i tre libri sacri ho potuto constatare che sono molto simili fra loro sia riguardo all’oppressione delle donne – in tutti le donne sono considerate inferiori agli uomini – sia riguardo al razzismo – in tutti si parla di uccidere l’infedele. Nei tre libri si fomenta l’odio verso chi adora un altro Dio e c’è disprezzo verso i poveri. Nei libri sacri e nelle religioni c’è tutto questo, ma non ne siamo consci perché spesso, per la loro sacralità, non abbiamo il coraggio di criticarli.

In Egitto, fino a trent’anni fa si potevano scrivere libri contro la religione, oggi non è più così, c’è stata una recrudescenza del fondamentalismo religioso. Ma nelle nazioni in cui vige un sistema politico progressista, come in Tunisia, viene data un’interpretazione del tutto differente della religione islamica. Questo significa che la religione non è una camicia di forza, perché può cambiare in base al potere politico vigente. Negli anni ottanta del secolo scorso, il governo degli Stati Uniti incoraggiava, finanziava e addestrava gruppi islamici, ingaggiando giovani sauditi, egiziani, yemeniti, marocchini per combattere l’Unione Sovietica in Afghanistan. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica, i soldati del grande e addestrato esercito di musulmani che si era venuto creando sono tornati con le loro armi nei propri paesi e hanno incominciato a uccidere i creativi, perché non avevano altro lavoro.

La religione sta diventando un’arma molto pericolosa sia per la società sia per i creativi, ovvero coloro che sfidano l’ambiguità e mettono in discussione l’ipocrisia e la doppia moralità. Nelle religioni monoteistiche non ho mai trovato una moralità univoca, la moralità è sempre doppia: ce n’è una per gli uomini e una per le donne, una per i ricchi e una per i poveri, una per i governanti e una per i governati.