LA LIBERTÀ, L’ETICA, LA FINANZA NELL’ERA DELLA COMUNICAZIONE

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professore di Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano

Per parlare di uno dei punti nodali della riflessione mondiale – il rapporto tra scienza, finanza e mercato, da una parte, e quello tra libertà e etica, dall’altra – parto da una citazione di Aristotele, uno dei passi iniziali della Politica: “Chi per le sue qualità intellettuali è in grado di prevedere per natura comanda ed è padrone, mentre chi ha doti inerenti al corpo per natura deve essere comandato ad esercitarle ed è naturalmente schiavo”. Poi Aristotele prosegue: “L’uomo è animale più socievole di ogni ape o di ogni altro animale che viva in greggi. Infatti, la natura non fa nulla senza scopo e l’uomo solo tra gli animali ha la parola: la voce è semplice segno del piacere e del dolore, non a caso appartiene anche agli altri animali. Proprio qui, in effetti, termina la loro natura: avere la sensazione di ciò che è doloroso e gioioso e poterselo indicare a vicenda. Invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso e perciò il giusto e l’ingiusto, e questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, in quanto egli è l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e delle altre virtù: la comunità di uomini costituisce poi la famiglia e le città”. Ne deriva che: “chi non può entrare a far parte di una comunità o non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un dio. Per natura, dunque, c’è in tutti lo stimolo a costituire una siffatta comunità: chi per primo l’ha fondata è stato la causa dei maggiori beni. Infatti l’uomo, che, se ha realizzato i suoi fini naturali, è il migliore degli animali, quando non ha né leggi, né giustizia è il peggiore. La più dannosa è l’ingiustizia armata e l’uomo nasce con le armi necessarie per la saggezza e la virtù, sebbene possa usarle per scopi contrari alla saggezza e alla virtù. Perciò senza la virtù l’uomo è il più empio e il più feroce degli esseri, dedito solo ai piaceri d’amore e del ventre. Ma la giustizia è virtù politica perché la sanzione del diritto è l’ordine della comunità politica; e la sanzione del diritto è la determinazione di ciò che è giusto”.
È impressionante l’importanza di ciò che afferma Aristotele, ma cerchiamo di capire bene cosa dice. Anzitutto fa una distinzione tra la mente e il corpo, partendo, da uomo antico, dal rapporto tra il padrone e gli schiavi. Noi non abbiamo più questo tipo di relazione sociale, ma tra la mente e il corpo c’è pur sempre un rapporto. La mente sa prevedere, il corpo deve eseguire, e questo già serve a capire che cosa sono la scienza e l’epistemologia. Aristotele ha già risposto: scienza è saper prevedere con la mente, saper estendere la presenza verso il futuro e verso il passato, memorizzare la nostra provenienza e anticipare il futuro. Ma la scienza è anche un lavoro che si fa con il corpo, per cui c’è solidarietà tra il padrone e lo schiavo: entrambi hanno lo stesso scopo. Noi abbiamo lo stesso scopo: mettere insieme ciò che prevediamo con la mente e ciò che facciamo con le mani. Tutto l’orizzonte della scienza e della tecnica, della sapienza e della virtù politica è già evocato. Ma in che modo il corpo si mette al servizio della mente, ovvero in che modo la mente può prevedere in maniera giusta, corretta, secondo il bene e il male dell’individuo, della famiglia, della società e dello stato? Aristotele fa una precisazione: anche gli animali in qualche misura prevedono, sulla base della sensazione. E alcuni animali hanno anche la voce, qualcosa di simile a quello che l’uomo ha in maniera unica e irripetibile e sovrana, la parola. Ma gli animali hanno soltanto la voce per esprimere le loro emozioni, il dolore, il piacere, la rabbia, l’aggressività, la paura, mentre l’uomo fa molto di più: parla, sa dire.
Dicendo che l’uomo è l’animale che parla e quindi è l’animale politico per natura – perché questo parlare fonda la famiglia, la società e lo stato –, Aristotele ci sta dicendo anche che il corpo umano non è soltanto come quello degli animali. Le mani dell’uomo sono guidate dalla mente, che s’incarna anzitutto nella voce. Ma la voce è la prima estroflessione, il primo lancio fuori del corpo umano. Infatti, la voce risuona per tutti, torna indietro per me come per gli altri, è il primo strumento esosomatico, come dicono gli antropologi: mentre l’animale è chiuso nella sua sensorialità, percepisce, soffre, gode, insegue, ma è circoscritto intorno al commercio del suo corpo, l’uomo incomincia a uscire dal proprio corpo. Dire che esce dal proprio corpo significa che usa uno strumento che gli torna indietro, come la parola, come ciò che non è detto solo a lui, ma è detto a lui perché è detto a tutti: se io dico “Al fuoco!”, lo dico per tutti e tutti ci alziamo in piedi. In questo caso non esprimo una mia sensazione, ma una parola che condividiamo. È un primo capitale, un primo strumento che capitalizziamo in maniera esosomatica; è qualcosa che sta là, è il vocabolario mentale che, da quando siamo infanti a quando diventiamo parlanti, si costruisce nella nostra mente, che così opera un lavoro attraverso il corpo e in particolare attraverso la voce, un lavoro che è la conoscenza, la previsione. “Andiamo a casa che pioverà”: un animale può percepirlo istintivamente, ma certo non può dirlo, non può farne uno strumento di vera e propria conoscenza.
Se poi facciamo un altro piccolo passo, implicito in Aristotele, se immaginiamo gli strumenti veri e propri (ma già la voce per l’uomo è strumento, protesi, qualcosa che sta fuori dal corpo), gli strumenti come cose costruite dalla voce, che ha modellato con lo sguardo e la mano i primi strumenti dell’uomo e che ha cominciato a scrivere nella materia delle cose le sue idee, le sue visioni, allora siamo di fronte a quella umanità che ha evocato Aristotele, che è piena di virtù. Quando dice virtù, Aristotele non intende la distinzione tra buono e cattivo, ma l’aretè, che in greco voleva dire “capacità”, la virtus latina: l’uomo è pieno di capacità perché è pieno di strumenti, nasce dotato di una strumentazione esosomatica. E questa strumentazione esosomatica, che lo potenzia enormemente, si modella in due passi successivi: il primo è quello che noi chiamiamo la scrittura del mondo, per cui costruiamo strumenti che ci rappresentano collocandosi là dove noi non siamo; questa è la funzione universale della scrittura – fino alla tomba, la scritta sulla tomba, che è per tutte le umanità future che passeranno lì davanti – e di qualunque altro strumento che mi rappresenti e mi rimandi, sia io assente o presente; poi consideriamo tutti gli altri strumenti che stanno al mio posto a percepire il mondo, dal cannocchiale alla fotografia, strumenti esosomatici, che è come se portassero il mio corpo più in là a ricevere segnali del mondo per potere interpretarli con la mente. Questa è un’altra grande strada che apre la scienza moderna: Galilei, con il cannocchiale, è il primo a dire che è inutile fare ragionamenti sulla luna, occorre guardarla, ma per guardarla occorre uno strumento che opera come se io andassi più vicino, come se io fossi stato trasferito là; noi oggi sappiamo che è vero, che la luna è così come Galilei l’aveva vista, anche se non l’aveva vista con gli occhi, ma attraverso uno strumento. Il passo successivo è compiuto non soltanto dagli strumenti che si mettono al posto del mio corpo percettivo, percepiscono per me, mi trasmettono i segni che la mente interpreterà allargando le sue possibilità d’interpretazione, quindi di previsione, di scienza, di conoscenza, ma anche dagli strumenti che sono in grado di reagire, che fanno qualcosa in risposta: quelli che noi oggi chiamiamo gli automi, cioè quegli strumenti che sono modellati, costruiti, congegnati, programmati, non solo per ricevere ma per rispondere, in modo da vicariarmi in maniera molto ampia. Sempre di più, la vita vivente dell’uomo, l’esperienza umana, che parte dalla mera sensazione e percezione dell’animale – patire, soffrire, gioire, fuggire, aggredire –, si estrinseca, crea nuovi corpi, crea nuove protesi della mente. Anzi, la mente è proprio questo creare protesi, leggere segni, interpretare l’universo, prevedere che cosa accadrà in Borsa domattina. Sono le stesse operazioni inferenziali, come si dice nella logica, che avvengono nel nostro estrinsecarci sempre di più in una materia che vorrei definire, all’antica, materia signata dalla tecnica, signata dalla scienza. Sempre di più noi estrinsechiamo in questi strumenti la nostra capacità di previsione, di scienza, di signoria sul nostro mondo dell’esperienza. E questo c’introduce alla nostra questione del rapporto tra finanza e libertà.
Consideriamo le ultime conclusioni di Aristotele: la forza dell’uomo sta nell’essere dotato di strumenti che l’animale non ha, ma questa forza è pericolosa perché può essere usata a fini differenti dalla giustizia. Questa scoperta di Aristotele può non sembrare granché, ma è importante che lui si riferisca allo strumento. E, a proposito del denaro, che è uno degli strumenti più straordinari, come la lingua o l’alfabeto, qual è il suo giusto uso? Mentre alcuni anni fa questa questione era riservata agli studiosi, oggi è diventata universale, perché tutti hanno il dito puntato su quello che si chiama il capitale finanziario.
Prendiamo per esempio la moneta, poi torneremo a Aristotele. La moneta è un grande enigma, ancora irrisolto: da quando, nel 1972, Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, dichiara universalmente che non c’è nessun rapporto tra l’oro e il dollaro – evento epocale nella storia dell’umanità occidentale – allora è sorta la domanda: qual è il valore del denaro? Finché potevamo riportarlo a qualcosa di materiale, a un bene – come dicevano gli economisti classici, come diceva già Aristotele – si rispondeva: il denaro è anzitutto un mezzo di circolazione che sostituisce le merci favorendo gli scambi, poi è un’unità di misura e, infine, è un deposito di valore che metto da parte. Per questo il suo fondamento doveva essere un metallo nobile, raro, facilmente trasportabile e facilmente suddivisibile, come l’oro e la sua polvere. Ma quale valore ha il denaro, e con esso le cose, se togliamo l’oro? C’è chi dice che il vero problema della crisi stia nel fatto che noi non sappiamo più che cosa ci garantisce, qual è il fondamento della fiducia per cui devo accettare come pagamento un biglietto di banca, visto che nessuna banca mi darà qualcosa in cambio. E, allora, molti dicono che dobbiamo comprendere che il fondamento del denaro in realtà non è mai stato l’oro, che il vero fondamento è scritto in quel gesto nixoniano che gli economisti sogliono ripetere così: fiat money, questa è moneta, “l’ho detto io”. Ma, allora, pensano costoro, ci vuole un’autorità, un’istituzione, che in qualche modo possa garantire che la circolazione monetaria, prima o poi, faccia quadrare i conti e la liquidità possa tornare in equilibrio. Vi ricordo che nel medioevo c’erano le grandi fiere nelle quali le varie monete dovevano trovare una loro equiparazione, i debiti dovevano essere pagati e i creditori dovevano essere onorati. Se ciò non si poteva fare, interveniva la moneta del sovrano, la moneta del re, la moneta ideale che non era una moneta reale, ma un processo di svalutazione: tu mi devi 500, ma sei in grado di pagare solo 400? Io faccio una svalutazione, il mio credito si estingue, e siamo pari, altrimenti la circolazione non può ottenere la fiducia di coloro che devono credere in questa moneta che circola. Così, alcuni sostengono che dobbiamo istituire un potere globale – sarà la società globale, sarà la Banca delle Nazioni Unite, sarà un’istituzione nuova – che deve, in qualche modo, garantire la giustezza dei conti e la giustizia del reddito.
Un’altra corrente, quella liberale, è ostile a questa ipotesi, perché contraria da sempre a ogni intervento statale o gerarchico sulla moneta e sul mercato. Essa sostiene che non bisogna avere paura, che ci saranno molte crisi, ma che, prima o poi, il mercato si aggiusterà da sé. Come? Attraverso l’informazione: se siamo tutti correttamente informati sulle realtà economiche che costituiscono la realtà finanziaria di ogni paese, di ogni scambio, possiamo fare valutazioni esatte. Così l’equità monetaria è costituita non dalla sua realtà materiale, ma dalla sua relazionalità con il lavoro umano. Anche questa via è interessante, seppure con i suoi difetti. Mentre la prima è idealistica, nel pensare che ci sia un’autorità così forte da poter decidere come equilibrare il mercato secondo giustizia, la seconda è ottimistica, nell’appellarsi alla possibilità di una totale informazione, il mito tipico della democrazia occidentale.
Per mettere subito in luce come questa ipotesi non funzioni, basterebbe fare due considerazioni. La prima è che il denaro è una merce, lo dicono gli stessi economisti liberali. Ma se il denaro è una merce, non può essere anche il criterio attraverso il quale valutare le merci. Altrimenti ci troviamo in una sorta di circolo vizioso, per cui il mercato oggi è totalmente dominato dalla merce: non importa cosa facciamo, facciamo ciò che rende più denaro. Ed ecco che siamo fuori dalla giustizia, tant’è che, riprendendo le annotazioni aristoteliche a proposito della voce, oggi non importa quello che diciamo, basta che diciamo qualcosa. Ma così non va: dobbiamo dire il giusto, dobbiamo dire il vero, non è possibile che la moneta impazzisca nel suo significante vocale e che, per una sorta di gemmazione, di malattia tumorale, produca di per sé ciò che non corrisponde a niente, se non a questa sua capacità di riprodursi. Se la moneta è una merce, attraverso il mercato non l’aggiusterete, ma sarà la moneta che vi trascinerà, come sta già succedendo.
La seconda obiezione è ovvia: cosa c’è di più mercificato dell’informazione? Anche se l’informazione fosse lo strumento attraverso il quale sostituiamo il fondamento naturale della moneta e lo agganciamo alla corretta comprensione delle infinite relazioni che operano in ogni transazione economica e anche se io fossi correttamente informato, l’informazione rimarrebbe a sua volta una merce. E se la stessa informazione è comprata e venduta, anche fare informazione è mercificare il messaggio e dunque determinare gli orientamenti del consumatore. Ma allora è evidente che non abbiamo più un punto solido al quale agganciarci e siamo allo sbando.
Tra queste due ipotesi, non si trova una via d’uscita. Possiamo dire qualcosa attenendoci al nostro Aristotele, che ha detto che gli strumenti sono il luogo della virtù dell’uomo, in quanto essere sociale, in quanto costitutivo di una vita dello spirito. Ma al tempo stesso proprio nell’uomo questi strumenti si pervertono. Ha nominato il sesso, i piaceri del ventre e l’avidità umana, che non ci sono nella vita dell’animale. Nella descrizione di Aristotele la vera differenza tra l’essere umano e gli animali, la vera virtù non sta nel fatto di avere costruito tante armi, tante parole, tanti strumenti esosomatici, ma di avere costruito le armi, le parole, gli strumenti che lui definisce giusti, cioè tali da discriminare il bene dal male, non in un senso moralistico, ma nel senso di ciò che è buono e ciò che è cattivo per la vita sociale dell’uomo. Lo strumento è potente, ma solo per fare meglio quello che l’animale già fa, cioè vivere e riprodursi, visto che gli esseri viventi, non essendo divini, possono acquisire l’immortalità solo generandola nei loro figli. Siamo partiti dall’animale che ha un corpo percettivo: l’uomo è migliore nella misura in cui lo estende, lo espande, diventa un sapere, diventa un lavoro che produce i suoi capitali, ma nella generazione della vita, della vita vivente, non in questa assurda gemmazione autonoma.
Nell’uomo ci sono due stati ben precisi: la vita vivente eterna – vita animale, ignara di essere mortale – e la vita vivente sapiente – vita che attraverso la parola avverte la morte e si riunisce in società per combattere la morte non della società, ma di ogni singolo. Aristotele pone l’istanza di questa vita, e in tal modo non è distante dalla visione sociale di Confucio, tanto che c’è da aver fiducia che la Cina e gli Stati Uniti, l’oriente e l’occidente possano capirsi, essendo politicamente simili, solo se si affrancano da una sorta di alienazione del denaro per il denaro, della quantità degli strumenti per la quantità degli strumenti. C’è una via di uscita possibile che stanno studiando in Francia, ma anche in Italia, alcuni economisti come Massimo Amato alla Bocconi.
A proposito d’immortalità, il denaro è certamente una merce, ma è una merce che, da quando è stato tolto il divieto dell’usura, produce interessi, potremmo dire che fa figli, per questo è sconvolgente. Allora, lancio una provocazione, appellandomi a Aristotele: se fa figli, deve morire, altrimenti diventa il nostro padrone, diventa lui il dio. Se figlia, come noi siamo mortali, guadagniamo l’immortalità attraverso la generazione, come diceva Aristotele, anche il denaro deve morire. Non voglio dire che deve scomparire perché è uno strumento irrinunciabile, con una potenza e una virtù insostituibili, sarebbe una perdita assoluta, regrediremmo in condizioni penose; voglio dire che dobbiamo agganciarlo, come dovremmo fare con gli altri segni, alla sensatezza della comunicazione, dobbiamo riportare la materia dei segni nell’ambito della sua accidentalità, senza continuare nella tentazione di fare della materia dei segni una specie di feticcio, un nuovo idolo. Queste cose vanno dette, concordate, immaginate, strutturate, attraverso un lavoro di grande finezza intellettuale, che non può essere fatto sotto la spinta contingente degli interessi locali, delle catastrofi locali, anche se, come diceva il grande filosofo e poeta tedesco Schiller, “la politica, lo stato è una nave che bisogna riparare mentre va”, non possiamo fermarla, perché sennò andiamo a fondo.
Per riprendere Aristotele, c’è un po’ di lavoro da fare perché “il signore” mente sia un buon padrone dello “schiavo” corpo e lo faccia vivere in maniera degna di un essere umano.