IL SILENZIO CANTA

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professore di Filosofia teoretica all’Università Statale di Milano

Molti anni fa, mentre ero a Baden Baden per un convegno, durante le ore libere raggiunsi la periferia della città per visitare la casa dove Johannes Brahms aveva vissuto per alcuni anni, in giovane età. Ritornando in albergo, mi ritrovo nell’incredibile ingorgo dell’ora di punta e, nonostante l’esasperazione del momento, mi accorgo di un’ampia area sulla quale si affaccia un monastero benedettino del ‘500, che decido di visitare. Entro in un luogo in cui regna la penombra, mi siedo in fondo alla chiesa e inizio a guardarmi intorno godendo, finalmente, del silenzio e della pace, dopo tanti rumori della strada. Improvvisamente, sopra di me, odo passi affrettati e giovani voci femminili che riecheggiano come un cinguettio scherzoso: sono giovani suore di clausura le quali, dopo aver scherzato tra loro come ragazzine, iniziano a cantare accompagnate dal suono dell’armonium, con un’esecuzione meravigliosa, giocosa e casta, ma estremamente intensa. Ne rimango rapito, fintanto che un’inserviente, rimbrottandomi in tedesco chissà quali maledizioni, con molta decisione, m’invita a uscire perché quello era un luogo di clausura. 

Mi rimetto alla guida e mi accorgo di avere fatto un’esperienza straordinaria e di avere sconfitto un luogo comune che abitava dentro di me silenziosamente, che rappresentava le suore di clausura come reiette che vivono fuori dal mondo, donne un po’ fuori di testa e, soprattutto, vite del tutto inutili. Pensavo che questo mondo fosse finito, che potesse avere motivazione di esistere fino alla rivoluzione francese, ma poi fosse un residuo di un’età scomparsa, una violenza, qualcosa d’inaccettabile, di deprecabile. Ho molto riflettuto sull’emozione indicibile provata in quel momento e sulla lezione che queste ragazze, inconsapevolmente, mi hanno dato, facendomi capire che in quel luogo dove il “mondan rumore”, come dicono i poeti, veniva escluso si svolgeva una funzione essenziale, fondamentale e irrinunciabile. Lì c’era il ponte, l’ombelico, l’omphalos, lì c’era un collegamento tra la terra mortale degli uomini e il cielo immortale della vita eterna, e queste vergini – sapete che la verginità è sin dall’antichità considerata un ponte, una soglia in cui l’eterno e il tempo si congiungono (la stessa immagine di Maria Vergine ne è la rappresentazione) – cantavano serenamente celebrando la loro festa serotina, il loro momento serale di addio al giorno e di avvento e accoglimento della notte: lì c’era ancora il choròs. Nell’esperienza che ho vissuto, tutto questo era incarnato nel canto e nelle creature che vivevano ancora così, celebrando la sera, mentre noi fuori inveivamo gli uni verso gli altri. Allora, ho capito che la nostra comunità può ignorare queste creature, può trascurarle o fraintenderle, ma non può esistere senza di loro. Se pensiamo alla comunità nella sua costituzione, scopriamo di avere qualcosa di molto simile: abbiamo una musica, un ritmo e un rito – ritmo e rito sono la stessa parola –, abbiamo l’invocazione per la notte che venga serena e torni nella sua ciclicità, l’invocazione di una vita eterna attraverso la fragilità della morte e del mortale. Non possiamo fare a meno di questi simboli, di questo gioco, di questa dialettica. Noi ne parliamo culturalmente, ma per esistere occorre che ci sia chi vive così, e non possiamo perderlo, sia un mistico cristiano, o una suora protestante, o un monaco buddista. 

Ammetto con grande franchezza di non essere religioso, ma mi rendo conto che se la parola non s’inscrive in questo canto e non si protegge in questo silenzio – che può essere quello del monastero così come possono esserlo altri – noi siamo perduti. La nostra vita sarebbe un impazzimento collettivo in cui non riusciremmo più a dare senso alle nostre istituzioni, ai nostri valori e ai nostri figli, vivremmo per fini privi di consistenza e, nello stesso tempo, non parteciperemmo di nessuna vera comunità perché qualunque comunità deve avere al suo centro, come omphalos produttivo, questa parola, questo canto innocente che collega la terra al cielo e questo fare silenzio liturgico rituale che lo circonda. 

C’è qualcosa che nasce nel silenzio e c’è qualcosa che nasce dal silenzio. Come professore, sono molto colpito dall’incapacità dei ragazzi di fare silenzio. Anch’io da ragazzino facevo molto chiasso insieme ai miei coetanei, ma venivamo redarguiti e, pertanto, smettevamo e sapevamo che era giusto fare silenzio. Adesso accade una cosa che ritengo incredibile: non si fa silenzio in un’aula universitaria. Queste creature che vivono nel silenzio e hanno scelto la disciplina del silenzio sono distantissime dalle aule universitarie, dove i professori devono interrompere la lezione per tacitare gli studenti e alcuni colleghi nemmeno riescono a farlo per timidezza o per il fastidio di dovere interrompersi. Eppure, un tempo, all’università gli studenti mantenevano il silenzio restando in adorazione della disciplina che apprendevano e, talvolta, anche del professore che meritava molta stima e ammirazione. Oggi, invece, ci troviamo nella grave situazione di dovere chiedere di fare silenzio all’università. Ma cosa importa fare lezione di filosofia e di letteratura se non si riesce a insegnare ai ragazzi a mantenere il silenzio e che il loro silenzio non è affatto un’imposizione o una violenza, bensì una collaborazione? Ho dovuto precisare ai miei studenti che la mia lezione nasce dal loro silenzio e che, questo, coopera con la lezione stessa, perché il silenzio ha tante qualità: c’è il silenzio di colui che pensa ad altro e c’è il silenzio di chi partecipa, che viene percepito. Il silenzio canta, è presente e, quindi, il loro silenzio è un atto di partecipazione alla lezione. Così come il silenzio di coloro che ascoltano gli altri che cantano, come il silenzio di colui che attende il momento per entrare e cantare, è un silenzio che costruisce il ritmo e la struttura della parola e della formazione. Questo fare silenzio, che era un’educazione fondamentale nei conventi, lo stiamo perdendo e così perdiamo un tratto fondamentale della capacità dell’essere umano: la capacità, facendo silenzio, di rinchiudersi in se stesso o, meglio, di tornare sul proprio fondamento. Un grande studioso di miti insegnava che un mito è ricollocarsi nel proprio fondamento, è un racconto che rimette sul proprio fondamento. 

Quindi il silenzio è prima di tutto strumentale, ma poi è una condizione dell’ascolto. Se c’è una cosa spaventosa alla quale assistiamo tutte le sere in televisione è la completa assenza del silenzio interessato all’ascolto, a cosa dice l’interlocutore che, tuttavia, spesso non suggerisce l’ascolto poiché si limita a proferire insulti. Se si cominciasse a reimparare un ascolto attento, che vuole comprendere, che ha la carità d’intendere la parola dell’altro, di qualunque altro – un silenzio francescano, Francesco ci aveva insegnato questo silenzio –, il silenzio indurrebbe anche gli altri a essere meno lupi. Ma questo silenzio s’imparava nei monasteri, come s’imparava nelle scuole, a catechismo, nelle famiglie. Quando ai bambini si diceva: “Stai zitto, non rispondere”, poteva essere interpretato come una grande lezione o come pura violenza. Tutto ciò dipende dall’animo con cui lo si fa, dall’importanza di dire: “Adesso non rispondi, tieni le tue risposte per te perché io non sono qui a dialogare con te”. Successivamente si è affermata la retorica del dialogo: il dialogo è importante e abbiamo imparato molto dai giovani, dando loro la possibilità di un dialogo, ma occorre prestare attenzione perché la loro infatuazione diventa retorica e diviene parola vuota tanto da farci rimpiangere i tempi in cui si diceva: “Adesso no”. Ebbi un grande professore, il primo professore di Filosofia teoretica all’Università di Milano, che ogni tanto aveva il vezzo di fare una battuta in milanese: quando uno studente muoveva un’obiezione, lui lo guardava sorridendo e diceva “tucc i pures g’han la toss” cioè “tutte le pulci hanno la tosse”; questa era l’unica risposta che dava. Era un po’ eccessivo, ma era un modo per segnalare la differenza, la distanza e il rispetto. Quelle fanciulle cantano la sera, il rispetto e la distanza; io ero lì abusivamente, e giustamente sono stato cacciato in malo modo: non avevo il diritto di stare lì e inserire la mia presenza non prevista e non gradita.

Infine, nel silenzio c’è il rischio, che nel convento credo sia particolare. Il silenzio ha un rischio di due tipi. Il primo è nell’humilitas, il silenzio umile: un’esposizione al silenzio, il silenzio dell’umiltà, il silenzio del tacere, l’estasi del silenzio. La saggezza antica veniva raffigurata con gli uccelli dal lungo collo, perché così la parola prima di arrivare al becco doveva percorrere molta strada e c’era il tempo di sospenderla o aspettare. Il secondo la hybris, la violenza del silenzio. Se s’inizia a pensare di fare silenzio, questo pensiero diviene condizione, s’inizia a tacere, a escludere tutte le voci profane, passionali, disturbanti, distoglienti, come un meditante zen che lascia passare le voci e nel silenzio fa il vuoto. E nel monastero cristiano c’è una ragione ben precisa di questo silenzio: l’attesa per la voce di dio, ci si mette su una soglia. Le ragazze che ho incontrato a Baden Baden non erano affatto fuori dal mondo, loro affrontano il rischio più grande: è un errore pensare che la loro scelta sia fatta una volta per tutte, quella scelta viene rimessa in gioco ciascun giorno perché quotidianamente, facendo silenzio, si sente la voce dentro di sé chiedere se è giusto il percorso che si sta compiendo, se si sente la voce di dio. Ma quando questa voce non si sente? Nel mio libro Il gioco del silenzio mi sono interrogato su come si riflette sul silenzio di dio, non c’è silenzio più maestoso e più imbarazzante. Pensate che tormento per chi ha dedicato la sua vita, rinunciando a tutto il resto, per questa voce che non parla e che si assenta, che talvolta sembra assolutamente inesistente. Mi sono consolato in questo libretto che ho dedicato al silenzio parafrasando un passaggio di Immanuel Kant – uomo religioso – secondo il quale: “Se dio parlasse, saremmo tutti fregati”. Chiaramente! Se parla non si ha più nessun merito di fede. 

Ritengo che indubbiamente il silenzio sia un rischio, una tremenda disciplina che deve alimentarsi giorno dopo giorno anche con quella ritualità del vivere che è tipica di un convento benedettino, ora et labora, ogni ora la sua cosa. Bisogna affrontare il silenzio del tempo, dell’ora che corre e della vita che passa. Bisogna agganciarsi a un ritmo che non è solo fatto da “il cielo e la terra”, “il giorno e la notte”, ma anche da appuntamenti per fare ciascuna cosa, ripetere i canti corali e altro. Ci si tiene cioè agganciati a questa disciplina che in qualche modo aiuta a tollerare il silenzio che, da un lato, è virtù e condizione, è il contenuto stesso di un’esperienza che può essere tale solo nel silenzio e per il silenzio, dall’altro, è anche un pericolo e una minaccia, una tentazione. Non dimentichiamolo: anche la disciplina è tentazione. Tutti conosciamo gli aspetti meno piacevoli della vita del convento, dove non sempre la disciplina ha ragione di carità e, pertanto, la disciplina forgia e rinforza, sostiene nei momenti di dubbio e nei momenti nei quali ci si pente delle proprie decisioni, ma talvolta la disciplina viene esercitata come persecuzione e diviene sevizia, ferisce, colei stessa che ha un’autorità sulle converse può sperimentare in sé questa ambiguità. Tutti la sperimentiamo. La disciplina come tremendo scavo nel profondo, può essere uno strumento d’elevazione e può essere, invece, uno strumento di sevizia: sin dove bisogna scavare nel proprio silenzio? Pensiamo a quali tormenti dell’animo provoca a queste donne tentare di guardarsi dentro per cercare una risposta al silenzio che le circonda nell’esperienza della natura ignobile dell’essere umano, che è loro come delle loro consorelle, in una piccola comunità dove succede ogni cosa propria della natura umana. Questa disciplina, paradossalmente, si usa come sevizia e strumento di un silenzio che attende una parola di rivelazione. 

Al fondo del silenzio stanno molte parole, custodite dal silenzio: quando noi lo ascoltiamo davvero e lo interroghiamo, vediamo emergere tante parole dal nostro silenzio, ma vediamo emergere anche grida, lamenti, disperazione, frustrazione, delusione, amarezza, e solo chi prova questo lo sa. Come diceva Martin Heidegger, nella vita noi siamo completamente distratti nel “si dice”, “si fa”, noi siamo quelli in colonna alla periferia di Baden Baden, invece loro sono là dentro a combattere con questi mostri che hanno dentro come, del resto, ognuno di noi. 

Infine, consideriamo l’esercizio del silenzio come solitudine estrema, quando non è più in una dialettica con la parola ma la condizione della parola stessa, ciò che emerge sotto la parola e ciò da cui emerge la parola. Nel monaco zen, nel convento cattolico, in un cammino di ascolto e di abbandono dell’io, di vuoto interiore, il silenzio perde la connotazione comune di contrario del suono della parola, per risultare qualcosa che confina con la solitudine estrema e con la insignificanza assoluta. Preciso meglio: non l’insignificanza del gesto che non ha senso o lo ha perso, bensì l’insignificanza come esperienza radicale e totale del nulla, evidenza del nulla, non evidenza del niente, due termini distinti in italiano (non in tedesco). Non il “niente” inteso come negazione dell’ente, come nelle due formulazioni: “questo mondo non ha senso, questo mondo è pura materia, la vita è breve e dopo non c’è niente altro”, che è complementare a “questo mondo ha senso, l’ha fatto dio e, dopo la morte certamente, c’è il paradiso e l’inferno”. Questo silenzio non è più nemmeno silenzio ma esperienza della insignificanza di ogni parola, insignificanza di ogni tesi, di ogni antitesi, di ogni passione, di ogni emozione: è svuotamento totale, è il nulla, inteso come Nulla. Chi arriva a questo nulla non arriva a qualcosa di negativo e nemmeno di positivo, ma a qualcosa che non può definirsi, così dicono i grandi mistici, non è né negativo né positivo, è semplicemente di là, al di là di me, non si tratta più di me, non è di me che si tratta, non è un io. Allora anche la solitudine cambia aspetto, nel convento non c’è solitudine, perché non c’è più l’io: l’io con la sua volontà di farsi le lezioni e con la sua ammirevole intenzione di ascolto non c’è più. Anche l’io è niente, è dissolto nella “super luminosa quiete”, nella “chiarissima notte” – i mistici usano queste espressioni contraddittorie. Lì è l’estremo confine di un silenzio al quale non so quanti arrivino nei conventi, ma certo è che è di nuovo un luogo essenziale. Guai a noi se nessuno più si mette per questa via, se nessuno più comprende che al di là delle passioni umane, a circondarle e a contenerle, sta un nulla pieno di vita ma che non è vita, non è vita egoistica ma è la vita di una comunità ideale, di una comunità sacrale che è, appunto, al di là del “mi” e del “tu”, del “mio” e del “tuo” e che è completamente consegnata e assegnata a un silenzio mistico che sta al di là della parola e senza il quale la parola umana non ha veramente niente da dire.