UN APPROCCIO VINCENTE ALLA CARDIOCHIRURGIA

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direttore dell’Arizona Heart Institute e dell’Arizona Heart Hospital, Phoenix (USA)

Pioniere della chirurgia endovascolare, uno dei più grandi cardiochirurghi al mondo, fondatore dell’Arizona Heart Institute di Phoenix, in settembre dello scorso anno, lei ha portato a termine con esito estremamente positivo, all’Hesperia Hospital di Modena, un intervento non invasivo su un paziente americano affetto da un grave aneurisma ad altissimo rischio per la chirurgia tradizionale. Come mai ha scelto Modena e, in particolare, l’Hesperia Hospital per questo intervento?

Anche se è la prima volta che faccio venire qui un mio paziente – per impiantare uno stent di ultimissima generazione, con un approccio rivoluzionario agli aneurismi –, la collaborazione con la struttura modenese (che dal 1993 è Sede Europea dell’Arizona Heart Institute) è iniziata circa vent’anni fa e si è articolata attraverso costanti scambi nella ricerca, nella formazione e nell’applicazione clinica, soprattutto per lo studio di impianti di protesi vascolari. Tra i più importanti risultati della collaborazione fra Hesperia Hospital e l’Arizona Heart Institute possiamo ricordare lo sviluppo di una endoprotesi aortica per il trattamento degli aneurismi dell’aorta addominale, ideata da me e da un mio collaboratore, che è stata impiantata per la prima volta a Modena e che, grazie a uno studio eseguito all’interno dell’Hesperia e dell’Università di Ferrara, ha ottenuto il marchio CE e oggi è una delle più impiantate nel mondo.

L’intervento eseguito nel mio paziente americano aveva una tale complessità che richiedeva non solo tecnologie all’avanguardia – per ora disponibili solo in pochi ospedali nel mondo, come questo –, ma anche e soprattutto un’altissima competenza diffusa a livello di equipe medico chirurgica, come quella costruita in tanti anni all’interno di Hesperia. Oggi, essere operati da un luminare non è più una garanzia in sé per il paziente. L’intervento endovascolare ha vantaggi straordinari: diversamente dall’intervento a cuore aperto, è poco invasivo, perché avviene senza bisogno d’incidere, quindi permette un recupero post-operatorio rapidissimo. Ma per questo tipo d’intervento non serve solo il bravo chirurgo capace di ridurre al minimo le ferite, occorre un lavoro di squadra e la massima elasticità in corso d’opera, un’equipe in cui ciascun componente medico e tecnico mantiene aggiornate le proprie competenze al passo con le tecnologie ed è in grado d’intervenire con prontezza e lucidità per ottenere i massimi risultati.

Nonostante lei abbia lasciato l’insegnamento universitario, quando è divenuto indipendente nel 1971, fondando l’Arizona Heart Institute, il suo impegno nella formazione non è mai venuto meno…

Ho lasciato l’ambiente accademico perché negli USA rappresenta un freno alla ricerca e all’applicazione di nuove tecniche per migliorare la diagnosi e la cura, non perché non amassi l’insegnamento universitario. Anzi, constatare che, per esempio a Modena, c’è un’equipe di chirurghi che hanno sviluppato un’abilità straordinaria nell’applicazione della tecnica che ho trasmesso, sia qui sia nei congressi che essi seguono, recandosi ogni anno al nostro Istituto di Phoenix, è qualcosa d’impagabile; mi dà grande gioia pensare che il numero di pazienti che possono usufruire delle nuove procedure e migliorare la qualità della loro vita possa aumentare con il numero di medici che si sono formati.

Quali sono i principi a cui s’ispira il suo insegnamento?

Nella medicina, c’è chi ama insegnare la tecnica attraverso dimostrazioni pratiche e chi ama spiegarla soprattutto teoricamente. A me piace combinare questi due approcci, per questo motivo organizziamo i congressi annualmente per illustrare le novità e le opportunità che offrono la tecnica e la tecnologia, ma manteniamo costante il nostro rapporto, ci consultiamo spesso durante l’anno e a volte, come nel caso del paziente che ho operato qui, c’incontriamo per lavorare insieme. Imparare la tecnica dell’intervento di cardiochirurgia endovascolare non è semplice: nella cardiochirurgia tradizionale, le procedure sono programmabili, quasi di routine, in quella endovascolare, invece, si ha solo un’idea di cosa occorra fare, il programma d’intervento si può esporre a grandi linee, ma poi si dev’essere pronti a cambiare rotta anche due o tre volte durante una stessa operazione. Un buon chirurgo endovascolare dev’essere come un Quarterback (“capo dell’attacco”) nel football americano, il quale, oltre che di grande leadership, dev’essere dotato di grande precisione e forza, di grande mobilità e di grande capacità di leggere in anticipo ciò che sta per accadere. I medici con cui lavoro qui hanno queste abilità tecniche e la struttura è all’avanguardia sia nella tecnologia sia nell’organizzazione. Non a caso è nostra sede europea e non a caso qui si possono affrontare casi complessi, come quello del mio paziente di Washington.

È un bel riconoscimento da parte di un grande cardiochirurgo americano, soprattutto se pensiamo che la critica più frequente degli anglosassoni agli italiani è quella d’individualismo…

La salute del paziente è sempre stato il mio obiettivo principale e questo campo non deve essere mai trasformato in un palcoscenico per prime donne. Sono fiero di aver contribuito a formare in Hesperia un’equipe di cui far parte e con cui vincere questa e altre battaglie per la salute dei pazienti.