PICCOLE IMPRESE A RISCHIO, SE NON RIPRENDONO I FINANZIAMENTI E I PAGAMENTI

Qualifiche dell'autore: 
docente di Revisione aziendale all’Università di Modena, presidente di PRM

La crisi mondiale dei mercati finanziari, iniziata nel 2007, esplosa con il tracollo di Lehman Brothers il 15 settembre 2008 e proseguita in modo acuto nel 2009, ha colto le imprese italiane, in generale, e le piccole e medie emiliane, in particolare, in un momento di loro crisi di efficienza produttiva e strutturale. Infatti, le nostre imprese, con un aggravamento del loro stato in seguito all’ingresso dell’Italia nella eurozona e diversamente dalle imprese concorrenti degli altri paesi dell’eurozona, per circa cinquant’anni hanno potuto essere competitive sui mercati internazionali grazie anche alle reiterate svalutazioni della moneta nazionale; e inoltre hanno finanziato le loro attività in misura sproporzionata con capitale a credito anziché con capitale di rischio.

La crisi, evoluta da finanziaria in economica, ha causato la dissoluzione di consistenti patrimoni e ha prodotto due effetti immediati: la forte restrizione del credito in generale (a causa della sfiducia nel mercato degli operatori e della sfiducia tra istituti di credito) e conseguentemente un crollo mondiale dei consumi, almeno nei mercati occidentali, e quindi dei fatturati. Queste circostanze hanno causato un trauma economico e finanziario alle imprese del nostro territorio che mediamente esportano oltre il 50 per cento della produzione. Il crollo dei fatturati (con oscillazioni dal 30 al 70 per cento) ha aggravato la tensione finanziaria delle nostre imprese, oggi al limite del collasso, che non hanno ottenuto dal sistema bancario la nuova finanza, per fare fronte al fabbisogno di liquidità.

Attualmente quindi le imprese emiliane sono impegnate in un sforzo notevole per il recupero dell’efficienza competitiva, almeno rispetto ai concorrenti europei; e questo comporta la riorganizzazione delle strutture aziendali con ridimensionamenti verso il basso della loro capacità produttiva, in presenza di consumi non ancora in ripresa significativa e che comunque impiegheranno tempi medio lunghi per avvicinarsi ai livelli di prima della crisi. Il ridimensionamento della capacità produttiva è abbinato alla necessità di monetizzare i cespiti aziendali in esubero (il che con le attuali condizioni del mercato è molto difficile), al fine di ridurre il livello d’indebitamento ormai insostenibile, a causa dei ridotti flussi economici e finanziari. Attualmente per le piccole e medie imprese della provincia di Modena il ritmo della ripresa è in calo negli ordinativi e i livelli produttivi rimangono quelli del 2005; ci sono alcuni dati incoraggianti nella crescita del settore meccanico e tessile soprattutto per le imprese più orientate all’export e per quelle che delocalizzano, comunque i consumi nazionali sono ai livelli del 1999.

Fino a oggi le nostre imprese sono riuscite a fronteggiare il “primo tempo” della crisi economico finanziaria utilizzando le scorte di materie prime e di prodotto finito e dilazionando i tempi di pagamento ai loro fornitori, così come hanno fatto i loro clienti; in questa fase è stata contenuta la necessità di nuova finanza. A questo punto però, se i loro clienti (spesso grandi imprese nazionali e multinazionali con maggiore forza contrattuale) non riprendono i loro pagamenti ai ritmi di prima della crisi e se il sistema bancario non eroga nuova finanza, le imprese rischiano il tracollo, innescando una reazione a catena, peggio, il “gioco del domino”; questo vale almeno per quelle che non possono ottenere nuovi capitali di rischio, dagli attuali soci o da nuovi soci come fondi d’investimento o capital venture.

Purtroppo, questa situazione è ulteriormente aggravata, da un lato da una pressione fiscale, tra le più alte d’Europa, che penalizza la competitività internazionale delle nostre imprese, e dall’altro da uno Stato che non sempre onora puntualmente gli impegni assunti: mentre pretende dalle imprese il pagamento delle imposte, non paga, con eguale puntualità, i crediti che le stesse imprese hanno per imposte pagate in eccesso (per difetto del sistema, per esempio consistenti crediti IVA), o per forniture (emblematico è il ritardo cronico del Sistema Sanitario). Infine, manca una legislazione favorevole ai bisogni delle imprese, soprattutto medie e piccole, che sono gravate da alti costi per i processi burocratici (solo per la provincia di Modena il costo è stato stimato pari a 18 milioni di ore di lavoro).

Da quando l’euro non consente più di prendere la scorciatoia della svalutazione competitiva della vecchia lira, il mercato interno non è più l’Italia bensì l’Europa, quindi i concorrenti europei, da sempre più efficienti per necessità competitiva, invadono il mercato italiano e nello stesso tempo non cedono terreno nel mercato interno dei rispettivi paesi: l’unità di misura comune, l’euro, consente un raffronto immediato da parte dei consumatori. Ma questo è un vecchio problema sorto nel 1999 e che le nostre imprese non hanno voluto o saputo risolvere prima di questa crisi finanziaria planetaria: il diluvio sul bagnato.

Dobbiamo forse sperare nell'uscita dell'Italia dall'euro per risolvere, almeno in parte, il problema?! Certo la crisi dei debiti pubblici dell'eurozona, conseguenza anche questa della crisi finanziaria mondiale, sta creando ulteriori complicazioni; l’affanno delle finanze pubbliche e gli attacchi speculativi sui titoli di Stato aggravano notevolmente la situazione, ma con un mercato “veramente” unico l'Europa potrebbe coordinare meglio le sue riforme per la competitività, l’innovazione e la formazione del capitale umano. Le nostre imprese avrebbero maggiore interesse a far convergere le politiche economiche nazionali evitando squilibri economici e finanziari.

In breve, sarebbero utili in Europa una maggiore unità politica e un bilancio federale che finanzi, a vantaggio della crescita economica e quindi dei mercati, i grandi progetti di ricerca scientifica e le reti infrastrutturali transeuropee.