LA SCRITTURA DI VIRGINIA

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docente di Filosofia del linguaggio all’Università di Bari

È molto importante leggere un testo restando nel testo. Arcangelo Leone de Castris, autore del saggio Il contesto nel testo, sosteneva che non bisogna abbandonare il testo andando a ricercare nella vita privata o nei rapporti di tipo ideologico e politico dell’autore elementi e giustificazioni della sua interpretazione. Il contesto è nel testo stesso, nella sua parola, nella sua scrittura.

Generalmente, invece, non si procede così. E credo che questo vizio di fondo possa racchiudersi in una nozione analizzata da Sergio Dalla Val nel suo intervento: il soggetto. Subjectus, “ciò che sta sotto”, “ciò che regge”. Se viene supposta l’esistenza di un soggetto, può accadere nel nostro caso che, anziché parlare della scrittura di Virginia Woolf, ci si occupi del sostrato che la regge, del sostrato portante. Ma questa è una visione sostanzialista, ontologica e metafisica di cui dovremmo liberarci.

Thomas Szasz c’invita a fare questo, e dà un contributo notevole in tal senso con il suo libro La mia follia mi ha salvato. La follia e il matrimonio di Virginia Woolf (Spirali). Ma fino a che punto? Il titolo La mia follia mi ha salvato è un’enunciazione che si riferisce alla possibilità di realizzazione di una scrittura: la scrittura con cui Virginia Woolf ha costruito qualcosa, ha fatto il suo viaggio, è giunta alla sua “costruzione”, la costruzione di un mondo, di una vita.

Ma credere, come in un certo qual modo insinua Szasz, che Virginia abbia recitato e che si sia servita della parte di folle deliberatamente assunta significherebbe credere che ci sia, da un lato, un soggetto e, dall’altro, le sue azioni, i suoi pensieri, le sue parole, la sua scrittura, che hanno in esso la loro base. È la fallacia del fondamento, del sostrato, del soggetto, appunto, della “sostanza” su cui “poggiano” gli “accidenti”, la fallacia ontologica, che fa parte dei luoghi del discorso, che ci fa credere di dover sempre “cercare sotto”, in profondità, scavare, scoprire, mentre ciò che non vediamo è sempre in superficie, nella scrittura, nella parola, nella lettera, davanti agli occhi di tutti, come scrive Edgard Allan Poe con il racconto La lettera rubata: Auguste Dupin, a differenza del Prefetto, del Commissario di polizia, sa trovare la lettera, perché sa che il Ministro che l’ha presa, oltre che matematico, è anche poeta e dunque, in quanto scrittore, l’avrà certamente riposta dove nessuno generalmente la cerca: in superficie.

Allora, come leggere il libro di Szasz? Come uno sforzo di dissipare il pesante pregiudizio che esista un soggetto portante, un facteur – Le facteur de la vérité è il titolo di un libro di Jacques Derrida; facteur significa anche “portalettere” –, un portatore. Il mito della malattia mentale è proprio questo: ritenere che ci sia un soggetto malato, un portatore di questo tipo di malattia e che ogni sua azione sia conseguenza di questa sua condizione.

Questa idea si basa sulla credenza che esistano rapporti meccanici di causa-effetto, ma anche questa è una forma mentis di cui bisognerebbe liberarsi: è ormai evidente, a livelli diversi e da angolature scientifiche e prospettiche differenti, come invece esista il feedback, la retroazione, dell’effetto sulla causa. Sicché – l’aveva detto Hume – anche questa è una fallacia: considerare ciò che è prima come la causa di ciò che è dopo; Virginia si comportava, e quindi “era fatta”, “già dall’inizio” così e così, quindi, di conseguenza… Ciò che si nota come accaduto prima è solo retroattivamente causa di quanto avvertito in un momento successivo.

Szasz prende posizione contro questa idea del portatore di malattia, nel caso specifico, della malattia mentale; per lui non è da ricercare nella “malattia mentale” di Virginia Woolf la causa di quanto avviene nella sua vita, anche del suo suicidio: non c’è un soggetto portante mentalmente malato all’origine delle proprie azioni. Anche se, per Szasz, un facteur c’è: non è un fattore mentalmente malato, ma c’è, ed è “l’agente morale” – così lo chiama – delle proprie azioni, delle proprie parole, delle proprie scritture, il soggetto che decide, che recita, che simula, che calcola, che sceglie quanto più e meglio gli conviene. Per questa via permane nel suo testo la ricerca di un filo conduttore, di un percorso unilineare su cui convogliare un’intera vita, incanalata, direzionata, determinata dal suo “agente morale”: “un agente morale che usava la malattia mentale, la psichiatria e il marito”.

Proprio con la sua scrittura Virginia Woolf dissente: smentisce l’idea di soggetto, di causa, di padronanza, di controllo, d’incanalamento unilineare, secondo una conseguente successione storica. La scrittura stessa, la scrittura letteraria è incompatibile con l’idea di “agente morale”: scrittore non può essere il soggetto; per la sua stessa pretesa di soggetto, di autogestione, di padronanza, il soggetto è negato come scrittore. Il soggetto è una cosa e la scrittura – la parola, la vita – è un’altra. Una cosa è la pazzia, che consiste proprio nel ritenersi soggetto, sostrato, causa efficiente, e altra cosa è la follia, che è della scrittura, della vita, del viaggio.

Szasz non conosce questa distinzione, non sa della follia come condizione della scrittura. Il soggetto narratore onnisciente può inventare una fabula, ma gli manca l’intreccio, può sapere tutto circa che cosa dire, ma difetta nel come dire. Woolf è una grande scrittrice, perché non padroneggia la parola, l’ascolta; non pianifica una storia, la segue; scrive scrivendo.

Certamente, nella sua scrittura, c’è la questione donna, come c’è, in ciascuna scrittura, la questione sessuale, ma non come questione dell’identità sessuale, bensì della differenza sessuale, della singolarità; non del genere o dell’appartenenza, dell’assemblaggio, dell’attribuzione, dell’assegnazione, in base a dati anagrafici, a un insieme piuttosto che a un altro.

La questione donna qui è la questione della differenza nella sua singolarità, nella sua corporeità, nel suo spazio-tempo. Lo spazio-tempo gioca un ruolo centrale nella scrittura di Virginia Woolf, e ha una sua peculiarità, una sua cifra, una modalità propria di espressione della materia, della corporeità, dell’indicidibilità; e della insostituibilità di ciascuno, della non interscambiabilità del posto che ciascuno occupa, dell’unicità; di una materialità, di una corporeità tale per cui si può parlare di una differenza intesa come singolarità e unicità, in cui la follia è qualcosa che è impossibile catalogare, schedare e spiegare.

Con Virginia Woolf intendiamo che la scrittura o è femminile o non è, nel senso che lo scrittore è colui che a suo nome non dice più niente, colui che si mette in ascolto. Virginia Woolf riesce a rendere a più voci un testo che dovrebbe avere una voce propria: scrive tacendo, si mette in ascolto e non parla più a nome suo, parlano i suoi personaggi. Naturalmente, di fronte a uno scrittore che è uscito dalla propria identità, compresa quella sessuale, e dalla propria contemporaneità, c’è sempre un critico che fa il suo mestiere prefiggendosi di ricondurlo nel presunto luogo d’origine, nei luoghi del discorso da cui si è allontanato; un critico che si accanisce a cercare il contesto fuori dal testo, che cerca di spiegare il testo cercando il soggetto che ne è stato la causa. Sicché ho apprezzato molto la lettura che Gino Scatasta ha fatto della scrittura di Virginia Woolf restando nel contesto del testo di questa scrittrice e al tempo stesso dando un personale contributo alla lettura del testo di Szasz.

C’è un punto del libro di Szasz che andrebbe particolarmente discusso: quando scrive che Virginia Woolf non può essere considerata mentalmente malata alla stessa maniera in cui, invece, egli afferma, si può dire che era un’inglese e una donna o che Leonard era un ebreo. Ecco ricomparire, malgrado la critica della malattia mentale, di nuovo l’ontologia, l’idea dell’origine, del sostrato, di ciò che starebbe sotto la parola e la scrittura, ecco la genealogia, la categoria dell’essere, il soggetto.

Purtroppo, questo modo di ragionare è radicato in ognuno, sul piano professionale, familiare e piano politico, nel “pubblico” e nel “privato” esiste nel rapporto con gli altri. L’idea della differenza identitaria, per esempio, fra comunitario e extra comunitario, fra ebreo e palestinese, fra uomo e donna, tesse una ragnatela che ci avvolge e di cui non riusciamo a liberarci.

Szasz compie, coraggiosamente, uno sforzo incredibile per distruggere questa ragnatela, però gli rimane ancora in mano l’idea che ci sia una Virginia Woolf come soggetto decidente, l’idea della libertà sulla parola, anziché della parola, come precisa Armando Verdiglione (La libertà della parola e La politica e la sua lingua, Spirali). Scrittore, invece, è colui che lascia la parola libera, colui che si mette in ascolto, che non intende più prendere o dare la parola, che non pretende più illusoriamente di esserne padrone.