NON CANCELLIAMO LA DIFFERENZA E LA VARIETÀ

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professore di Filosofia teoretica all’Università Statale di Milano

Anzitutto credo che occorra riflettere sulla nostra esigenza d’integrazione. Se avessimo usato questa parola cinquecento anni fa, probabilmente non saremmo stati intesi. L’integrazione nel senso moderno del termine è un problema che incomincia con l’impresa di Colombo, che crea una situazione che sconvolge tutte le tradizionali maniere attraverso cui l’uomo aveva concepito se stesso, la terra, il mondo, le religioni. Dal momento della scoperta di Colombo nel pianeta c’è tutt’altro e bisogna integrarsi con tutt’altro. Allora l’integrazione è nata da una violenza inaudita, che è ancora in atto: per fortuna, negli ultimi anni vengono pubblicati libri straordinari in cui l’impresa di Colombo e quel che ne è seguito sono ricostruiti, per quanto è possibile, dal punto di vista di coloro che sono stati invasi. Gli autori di questi libri, recuperando quel poco che si è riuscito a salvare dalla distruzione totale del mondo degli Inca e dei Maya, cercano di farci capire come da quella tragedia nacque un problema che da allora c’insegue: quello della costruzione di un diritto internazionale. L’evidenza di questa tragedia, di due umanità sconosciute l’una all’altra, che devono integrarsi – perché devono vivere insieme con valori, tradizioni, tecniche di vita, commerci, economie incompatibili e incomparabili – crea il problema del diritto internazionale. Da lì nasce il problema dell’integrazione, che oggi è diventato tanto più sensibile in quanto c’è un bisogno, un’istanza di unità: ci stiamo incontrando tutti su questa piccola terra e questo incontro collettivo pone una serie di problemi che nascono dall’economia, dalla scienza, dalla politica e dalla democrazia moderne, unitariamente concepite dal mondo occidentale nei modi che conosciamo.
Allora, da un lato, abbiamo un’inevitabile spinta verso l’unità – unità del commercio, dell’economia, del denaro come unità di misura del valore economico e delle strutture politiche mondiali –, con la pretesa che dappertutto ci siano forme di democrazia basate su quei valori che gli occidentali considerano universali, ma che sono tutt’al più una speranza e comunque una tendenza all’unità: tutti devono unificarsi in questa globalità, che è incentrata soprattutto sul modo di produrre le cose, la vita, le generazioni, la ricchezza. Tuttavia, questa spinta all’unità non si scontra solo con idee e religioni diverse – non si può relegare il problema in un ambito meramente culturale –, la ragione per cui occorre riflettere sull’integrazione e comprenderne la necessità è più forte: è una questione radicale, che ridurrei ai due grandi temi oggi in discussione da una parte e dall’altra dell’oceano.
Il primo tema è quello della possibilità che l’unità della nostra visione economica globale rispetti la biocompatibilità naturale. Il nostro modello di sviluppo è compatibile con il nostro pianeta? Sappiamo già che la risposta è negativa. Quindi emerge la necessità d’integrazione anzitutto fra il nostro modo di promuovere la vita su questo pianeta e il pianeta stesso. Non è privo d’interesse che, per la prima volta nella storia dell’uomo, due costituzioni politiche, due anni fa, in Ecuador e in Perù, abbiano costruito una carta costituzionale, che riconosce la terra come “soggetto giuridico”: non come oggetto, oggetto di un investimento economico, luogo da sfruttare, terreno da dissodare o da penetrare, ma come soggetto vivente, che viene molto prima di noi e che costituisce la condizione e la premessa perché noi continuiamo a viverci. È la terra come luogo da custodire e al quale riconoscere dei diritti, quindi da integrare con le nostre necessità economiche, con il problema della moltiplicazione degli esseri umani e tutta una serie di altre questioni. E ormai non possiamo prescindere dalla necessità d’integrare questo fondo originario che la scienza e l’ideologia moderne hanno oggettivato come se fosse una morta cosa, come se l’aria e l’acqua fossero cose, come se ciò che è dentro le viscere della terra fosse semplicemente un oggetto da prendere, da rapinare. Tutto questo non funziona più, ma esige un’integrazione con il nostro modello di sviluppo. Abbiamo bisogno di un’integrazione anzitutto con l’ambiente, considerandolo non una specie di cornice in cui ci muoviamo, ma come la radice, la madre vivente di tutti noi. Se non affrontiamo questi problemi, il modello di sviluppo continuerà a produrre conseguenze pericolosissime per noi, per la nostra stessa vita, oltre che per tutti gli altri viventi del pianeta. È questa la prima integrazione che precede tutte le culture e che alcune culture, compresa la nostra, in maniera virtuosa, incominciano a mettere a fuoco. Non si può più andare avanti così, non si può immaginare che il mercato mondiale e il prodotto interno lordo siano gli unici criteri, che il profitto e l’integrazione del capitale finanziario, a livelli sempre più alti, siano i parametri sufficienti alla difesa di questo pianeta e alla costruzione di una civiltà integrata.
Il secondo tema sul quale dobbiamo riflettere rispetto alla spinta verso l’unità è quello della biodiversità, meno discusso del precedente. Che cos’è la biodiversità? Per esempio, è il contrario di ciò che sta succedendo oggi a un continente sventurato come quello africano, l’oggetto del rimorso infinito che tutte le culture che l’hanno sfruttato non possono non avere. Recenti studi di storia economica hanno indicato nella schiavitù, cioè nel trasferimento della manodopera nera coatta negli Stati Uniti, uno degli elementi fondamentali in base ai quali si è messo in moto poi quel grandioso movimento di rivoluzione che è il capitalismo, l’industrialismo. Non c’erano in Europa le condizioni, non c’erano il numero di braccia e le condizioni morali, psicologiche e sociali per creare quella manodopera che ha costituito ciò che Marx chiamava il prodotto primario del capitalismo, il frutto, dovuto al lavoro, in quel caso, schiavistico. L’Africa è alla radice del movimento capitalistico, ma come soggetto passivo. E oggi ancora una volta in Africa, ma non solo, grandi capitali arabi, cinesi, brasiliani, giapponesi e anche europei stanno acquistando vaste distese di terra per impiantarvi monocolture sulla base delle esigenze di mercato, quindi del rendimento. Tutto questo, gettando nella povertà la gente che da sempre ha vissuto lì in piccole comunità di villaggio, organizzate nelle loro particolari forme e strutture – e poi ci chiediamo come mai scappano verso il Mediterraneo e arrivano nei nostri paesi –, con la promessa di costruire tutta una serie di servizi e di modernizzazioni, che in realtà non vengono mai realizzati o, se vengono realizzati, sono cattedrali nel deserto. Il risultato è la distruzione della biodiversità e la riduzione sempre maggiore della molteplicità di prodotti ai fini del puro profitto finanziario, sulla base delle esigenze del mercato mondiale. Questo determina un impoverimento generale, una forte crescita del prezzo del cibo, un disastro per i più poveri e per la terra. Se si riduce la vegetazione a un’unica coltura, anche le specie animali che ci vivevano, non soltanto gli esseri umani, non possono viverci più e quindi si mette in moto un meccanismo mostruoso di livellamento, dove l’integrazione è unificazione coatta e devastazione in nome di un’unità di un solo valore, quello del capitale finanziario.
Non possiamo più ignorare questi fatti. Da qui nasce anche il problema dell’integrazione dei modi di vita, delle culture, delle credenze, delle tradizioni, dei costumi, del modo d’intendere il sesso, il lavoro. Alla fine le figlie e i figli dei musulmani che vivono in occidente diventeranno come noi. I loro padri impazziranno di rabbia, talvolta purtroppo ricorreranno a violenze inaudite, ma è chiaro che i loro figli diventeranno come i nostri, perché ciò che costituisce l’identità di una persona è ciò che fa, non ciò che pensa, ciò che pensa è conseguenza di come vive, di come fa le cose, perché la religione ha la sua radice nella cultura materiale, nel modo di fare le cose, di abitare le case, di scambiarle. Allora qui di nuovo siamo punto e a capo: se immaginiamo un solo modello di civiltà e di civilizzazione, se tutto deve diventare Chicago, se tutto deve diventare uguale, siamo di fronte all’eliminazione della differenza, che comporta un rischio di morte per tutti noi, ma questo modello non è sostenibile. Non è vero che il mondo si riempirà di Chicago: quello che consuma Chicago è cinque volte superiore a quello che consuma una città europea e venti volte a quello che consuma una città del terzo mondo. Non è vero che questo modello di benessere può essere esteso nell’universo mondo, è una falsità, ed è una tragica falsità, perché non è vero che abbiamo interesse a rendere tutti uguali a come l’illuminismo francese ha immaginato che dovremmo essere.
È evidente che il problema di fronte al quale siamo così sensibili, che in questi giorni si è ripetuto in maniera drammatica, è la fuga verso l’Europa. Ma non si tratta solo del problema contingente, anche se non vorrei essere al posto di coloro che devono affrontarlo, perché non si capisce come affrontarlo: con il buonsenso, la carità umana, la pietà e, nello stesso tempo, il senso di assurdità? È da dove loro partono che le cose devono andare diversamente: dobbiamo salvare le loro culture nel loro luogo, nel loro ecosistema, nell’ecosistema della loro economia, del loro commercio, delle loro strutture politiche, perché in questa differenza si tratterà poi di stabilire rapporti fruttuosi, come da sempre fa il commercio mondiale, con momenti di contrasto e momenti di pacificazione, ma lasciando le differenze. Non è più possibile andare in Africa a devastare le loro colture, le loro tradizioni contadine, le loro ricchezze agrarie, le loro varietà, in un ambiente poverissimo dove noi non riusciremmo a vivere e loro riescono, o riuscivano, benissimo.
Allora, il problema è quello di costruire un’integrazione globale, di natura mondiale, planetaria, che utilizzi la nostra capacità di produrre ricchezza, di produrre denaro. Non sono cose da sottovalutare, sono le nostre specialità, noi siamo speciali in universalismo, e il vero universalismo in cui siamo speciali è il denaro, che è l’universalismo dell’universalismo, è il vero universalismo che fonda tutti gli altri. Prima, la nostra universalità si è esercitata nel costruire un linguaggio fondato su una ventina di segnetti alfabetici universali, con i quali si possono trascrivere tutti i linguaggi della terra. Nessuno ha fatto niente di simile prima, l’abbiamo fatto noi, e su quella base abbiamo costruito una civiltà di cui non dobbiamo affatto vergognarci, perché ha avuto le sue tragedie, i suoi lutti, ma anche le sue grandezze, a cui non possiamo rinunciare, è il nostro modo d’integrarci con la terra e con gli altri. Ma integrarsi non vuol dire ridurre all’unità, a un’unica ragione. Come potremo affrontare problemi così grandi che sono anzitutto di natura economica, quindi di natura politica, poi di natura ideologica o religiosa, infine culturale? È qualcosa che evidentemente non si può risolvere a tavolino: dobbiamo fare le cose insieme, andare sul posto, analizzare le situazioni e proporre, non imporre, modificazioni che siano nell’interesse di entrambi i contraenti. Esistono forme di mediazione, ma devono essere potenziate, per avere maggiore possibilità d’incidere; dobbiamo, noi stessi in occidente, fare un passo indietro, affrontare dei sacrifici – ma li stiamo già affrontando, e sono grandissimi –, e porci la domanda che oggi ricorre nel dibattito economico-filosofico in tutto il mondo: “Quella che stiamo vivendo è una delle tante crisi o aveva ragione Marx e bisogna ripensare il modello di sviluppo?”. Questo è il passo culturale che credo convenga a tutti.