ALESSANDRO VALIGNANO, UN GRANDE MAESTRO ITALIANO IN ASIA

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banchiere, già docente della Sophia University di Tokyo, presidente di Duemme Servizi Fiduciaria di Banca Esperia, Milano, e di MVC & Partners, Lugano

Vent’anni fa, lo scrittore americano Francis Fukuyama, nel libro La fine della storia, sosteneva che il livello raggiunto dalle democrazie liberali e la globalizzazione avevano creato i presupposti perché il mondo diventasse un villaggio unico, dove avrebbe prevalso la cultura americana. Si dimostrò un’ipotesi fallace, demolita poco dopo dal saggio Lo scontro delle civiltà di Samuel P. Huntington, secondo cui non ci sarebbe stata una civiltà universale, ma un mondo con civiltà diverse che avrebbero dovuto imparare a convivere. È ovviamente una tesi molto discussa da cui è nato un grande dibattito, ma Huntington esce vittorioso dal confronto, perché ci porta a capire che il problema della cultura è fondamentale: come diceva il mio maestro Fosco Maraini, citando Tacito, le culture, i modi di pensare e le fedi profonde cambiano col passo dei secoli, non dei giorni o degli anni. E che la parola “cultura” abbia un plurale è quello che scoprirono Alessandro Valignano e Matteo Ricci, che capirono come in Asia sarebbe stato impossibile svolgere la loro missione di evangelizzazione se non avessero tenuto conto del fatto che c’erano differenti culture e che non potevano diventare una.
D’altra parte, le tre sfide previste dalle Nazioni Unite per il ventunesimo secolo sono la riduzione dell’inquinamento atmosferico, quella del divario tra poveri e ricchi nel mondo e la gestione della differenza culturale. Chi fa business non può ignorare che la cultura ha un plurale, soprattutto se vuole fare affari con i cinesi o i giapponesi.
Il Giappone è un paese atipico, come già negli anni settanta disse John Kenneth Galbraith, il quale affermò che il Giappone e l’Italia sono due code della gaussiana: al centro, nella campanulare, troviamo gli Stati Uniti e l’Inghilterra, su un lato la Germania, sull’altro la Francia e sulle due code l’Italia e il Giappone, due paesi atipici. Il Giappone ha una cultura particolaristica – perché per duemila e settecento anni i giapponesi hanno vissuto isolati dal resto del mondo –, ma è anche un paese confuciano, per questo simile alla Cina: ha la stessa cultura ideogrammatica, con un apprendimento visivo e non auditivo e un modo di pensare molto diverso dal nostro. Quando nel V secolo il Giappone incomincia a importare, insieme al buddismo, la cultura cinese e gli ideogrammi, importa anche il confucianesimo, che non è una religione ma una serie di norme morali, ritualizzate, che mirano ad assicurare il buon funzionamento della società e del gruppo. Il confucianesimo non si occupa dell’aldilà, dell’ultraterreno o del metafisico, ma teorizza il modo più ordinato per portare avanti armoniosamente la società.
Ciò che possiamo osservare ancora oggi è che, man mano che ci spostiamo dall’Europa verso l’Oriente, la figura dell’uomo diventa sfumata e prendono risalto il gruppo, l’interesse collettivo e quello nazionale. E, soprattutto, prevale l’etica sul diritto, i tribunali giapponesi decidono caso per caso, non si basano sul diritto. È un approccio pragmatico, che proviene anche dalla cultura dello yin e dello yang. Quella giapponese non è la cultura dell’essere o non essere, dell’alternativa esclusiva; è la cultura del “e/e”, non del “o/o”. Qualcosa può essere o non essere, dipende dalle situazioni; Dio non è contro l’uomo, ma ci sono Dio e l’uomo. In questa cultura del pragmatismo non c’è posto per il tertium non datur aristotelico, a fondamento della nostra cultura giudaico-cristiana, quindi si può essere simultaneamente comunisti e capitalisti: il comunismo è uno dei sistemi autoritari e nazionalistici che possono essere utilizzati per il buon andamento dell’economia, se l’economia cresce del 15 per cento, il comunismo va bene, nel giorno in cui l’economia crescerà solo del 2 per cento, i comunisti saranno probabilmente mandati a casa.
Il più bel libro mai scritto sul Giappone è Il crisantemo e la spada di Ruth Benedict, un’antropologa americana a cui il governo americano diede l’incarico, alla fine della guerra, di cercare di capire i giapponesi. Dalla sua analisi emerse che mentre noi occidentali abbiamo una cultura che si basa sul peccato, i confuciani hanno una cultura che si basa sulla vergogna, la vergogna sociale, dove ciò che importa è come ci si comporta nel gruppo. E quali sono i valori importanti del confucianesimo? Ordine, disciplina, senso di responsabilità nei confronti della famiglia, lotta alla criminalità e organizzazione collettiva del lavoro e della vita. E i valori considerati negativi? L’edonismo, l’avidità, l’individualismo, il basso livello di formazione e la mancanza di rispetto per le autorità. Così li ha descritti Lee Kwan Yu, il mitico leader di Singapore.
Alessandro Valignano aveva capito che la società giapponese è verticale, molto gerarchica e basata sul gruppo e sulle sue esigenze, per esempio, quelle che provengono dalla cultura del riso, che ha bisogno dell’acqua: per fare deviare o condividere l’acqua occorre andare d’accordo, negoziare.
Dalla necessità di negoziare e di conformarsi consegue l’importanza della forma, che condiziona anche le parole che si possono dire o non dire. Allo stesso tempo le comunicazioni interpersonali sono spesso non verbali; è il trionfo della nuance, dell’innuendo: chi ha vissuto per decine di secoli in un arcipelago lontanto dal continente, si basa molto sullo “implicit understanding”. Haragei significa, appunto, “comunicare con la pancia”. Non si tratta di dire bugie, ma di pensare che non ci sia bisogno di dire alcune cose, perché la controparte le capisce lo stesso. Quelli che non le capiscono siamo noi occidentali: quando un giapponese dice sì, può darsi che stia dicendo soltanto che ha capito, che ha “sentito che hai parlato”, ma questo non vuol dire che sia d’accordo.
Mentre ero direttore della Banca Commerciale Italiana in Giappone, accadde un episodio molto significativo in questo senso, in cui imparammo che in Giappone non si licenzia, perché licenziare vuol dire Kubi, “tagliare la testa”. Quindi, se si deve licenziare qualcuno, si deve trovare una formula perché la persona lasci il posto di lavoro senza essere licenziata, perché il licenziamento è un’infamia che rimane per tutta la vita, sempre secondo i parametri della cultura della vergogna. Così, quando ci accadde di licenziare una persona disonesta fummo costretti ad andare in tribunale ventitré volte e, dopo quattro anni, il giudice ci disse che in Giappone non si arriva mai alla sentenza e che si tende a prolungare i tempi in modo che le parti si mettano d’accordo. Quindi ci propose che la persona si licenziasse da sola e noi gli corrispondessimo un anno di stipendio. Obiettai che se ce lo avesse detto prima, avremmo risparmiato ventitré udienze e i soldi per gli avvocati. Ma secondo lui era compito nostro sapere come funzionano le cose in Giappone, quindi fin dall’inizio non avremmo dovuto licenziarlo ma trovare la formula per separarci senza causare traumi come la “perdita della faccia”.
Ricorderò un altro episodio: quando arrivai in Giappone, nel 1972, poiché rappresentavo una banca straniera prestigiosa, venivo ricevuto dalle più importanti compagnie. All’epoca conoscevo solo l’inglese e la prima cosa che chiedevo quando incontravo gli interlocutori era “How are you?”. Poiché in quel periodo il Giappone cresceva al 10 per cento l’anno, tutti mi rispondevano: “I’m very busy”. Al che replicavo che mi dispiaceva – perché in Italia chi dice di essere busy sta comunicando un disagio – e vedevo dalla loro faccia che qualcosa non funzionava nella mia risposta, ma non capivo cosa. Dopo alcuni mesi, uno dei miei collaboratori giapponesi, che vedevo insofferente, mi disse che non potevo dire che mi dispiaceva perché in Giappone essere busy significa che le cose vanno bene. Naturalmente, da allora replicavo: “I’m happy” e, naturalmente, ottenevo grandi sorrisi.
Un altro aspetto al quale occorre fare attenzione è il lavoro dei traduttori. Sono uscito tante volte da una riunione convintissimo che fosse andata bene o cosciente che fosse andata male, ma spesso gli stranieri che erano con me, in genere italiani, svizzeri o americani, avevano un’impressione diversa. Questo perché la lingua non è chiara, è ambigua. In giapponese, quando chiedi se è piaciuta una cosa e che cosa se ne pensa, la risposta è sempre tradotta con “ci penserò”. In realtà, ascoltando bene il giapponese, ci sono sei o sette espressioni che comunicano, come l’arcobaleno, una varietà di colori: dal no assoluto al sì certo.
Nelle trattative con i cinesi e i giapponesi, inoltre, è molto importante capire chi decide, anche se non è facile. Molto spesso ci sono gli Egoya, cioè coloro che conoscono l’inglese, perché hanno trascorso la loro vita a studiarlo, ma non hanno nessun potere in azienda, anche se danno l’impressione opposta. In genere la persona che decide è quella che non parla mai. Poi ci sono trucchi molto diffusi, che però con me non funzionano più perché ormai parlo il giapponese e m’informo prima su chi decide. I grandi capi non vogliono parlare in inglese, anche quando in realtà lo conoscono benissimo, perché così hanno il tempo di pensare alla risposta, mentre qualcuno traduce la domanda. Tutti questi trucchi naturalmente sono autodifese tipiche di popoli che si sono rinchiusi in loro stessi per migliaia di anni, uno nella Grande Muraglia, l’altro sulle sue isole.
Anche la compostezza della popolazione giapponese durante la tragedia dell’ultimo terremoto non ci sorprende, se pensiamo alla loro cultura della forma: sulla CNN, per esempio, ho visto una signora alla quale una guardia civile ha fatto vedere la mamma avvolta in un telone azzurro; senza una lacrima – forse perché le aveva già spese tutte –, la signora si è limitata a osservare: “La riconosco, grazie”. Immaginate come si sarebbe svolta la stessa scena in Italia. Ma, in una cultura dove prevalgono i valori della collettività su quelli dell’individuo, le emozioni sono fatti interni, intimi, non c’è bisogno di comunicarle agli altri e, in qualsiasi circostanza, la forma deve avere il sopravvento.
Ho lavorato per dieci anni al libro intorno ad Alessandro Valignano (Il Visitatore. Alessandro Valignano, un grande maestro italiano in Asia, Spirali), ma inizialmente volevo fare una cosa diversa: avevo scritto più di cinquecento articoli di economia, politica e società per il “Corriere della Sera” e m’interessava molto un personaggio storico del Giappone, l’uomo che aveva unificato il paese nella seconda metà del XVI secolo. Un uomo straordinario, Oda Nobunaga, uno shogun che nell’uso delle armi aveva anticipato Carl von Clausewitz di tre secoli, beveva il vino ed era diventato amico dei gesuiti; così aveva incontrato Valignano e gli aveva reso grandi onori. Man mano che andavo avanti nella ricerca, trovavo riferimenti sempre più importanti a Valignano. Poi, nel 1987, il grande yamatologo Fosco Maraini mi regalò il manuale di Valignano (Il cerimoniale per i missionari del Giappone), con la seguente dedica: “Nel segno della (quasi) immutabilità sostanziale dei popoli”. Allora, capii che dovevo aggiustare il tiro: non sarebbe stato più Oda Nobunaga l’uomo di cui avrei parlato, perché era giusto valorizzare l’opera di Valignano. Penso sia stata una sorpresa per gli yamatologi in Italia, qualcuno di loro si è accorto che la cultura non è patrimonio esclusivo di qualche professore o casta, ma riguarda ciascuno di noi e ciascuno di noi può fare cose interessanti. Io ne sono la prova: mio padre è morto in Russia quando avevo tre anni e così ho incominciato a quattordici anni a lavorare in una banca, a Milano, dove facevo il fattorino. Per dieci anni ho continuato a studiare di notte per arrivare a laurearmi a pieni voti. La stessa cosa è avvenuta nella professione: m’interessava il mondo e ho fatto di tutto per avere un lavoro che mi portasse in giro per il mondo. Ovviamente il mio interesse è oggi soprattutto l’Asia, dove ogni cosa è una sfida: tuttora rimango stupito dal Giappone e dalla Cina. Pian piano ho imparato a capire la loro cultura e la loro lingua, e questo mi ha dato la possibilità di lavorare intorno a Valignano. È stato un percorso lungo, c’era molto da leggere, una persona ha collaborato con me nella ricerca per diciotto mesi: il materiale è tanto perché Valignano ha lasciato quattromila pagine scritte. Ma perché Valignano è un grande? Egli anticipa non solo la filosofia di Hans-Georg Gadamer sull’Altro, ma anche il Concilio Vaticano II (di quattro secoli). Valignano inventa l’empatia, l’adattamento, l’inculturazione, che è molto diversa dall’acculturazione, in cui è sufficiente la conoscenza dell’altro: per l’inculturazione invece ciascuno vuole conoscere l’altro e vuole che l’altro conosca lui, per cercare insieme un percorso nuovo: la ricerca di nuovi orizzonti culturali. Questa è la chiave di volta per trovare la formula di una possibile convivenza su questo “pianeta di naufraghi”. E questo è il messaggio di Valignano, che non è legato a un periodo storico circoscritto: al contrario, è più che mai attuale, in linea con i tempi. Il mio interesse per Valignano è rivolto alla sua intelligenza, alla sua capacità e alla sua tenacia. Consideriamo che all’epoca per raggiungere l’Asia occorrevano diciotto mesi di viaggio, con una probabilità di sopravvivenza limitata al 50 per cento. Quindi non era un’impresa facile. Inoltre, per la missione in Asia Valignano aveva reclutato i migliori: i quarantuno più bravi giovani gesuiti d’Europa, tra cui sette ebrei convertiti, incluso Matteo Ricci, al quale affidò la Cina, con l’impegno di studiare il cinese. Io che ho imparato il giapponese dopo i trent’anni, posso testimoniare che per un adulto è un compito difficilissimo perché occorre cambiare modello culturale. Chi è cresciuto parlando italiano ha una “centralina” interna addestrata a tradurre tutti i suoni in idee, mentre nelle scritture ideogrammatiche le idee sono folgoranti, fortissime: guardando un giornale cinese o giapponese si capisce a colpo d’occhio di che cosa si parla, mentre noi dobbiamo leggere, perché la nostra “centralina interna” deve tradurre la scrittura in suoni e poi in idee.
Quindi Valignano ha dovuto affrontare problemi enormi ed è morto punendosi col cilicio, dormendo tre ore per notte, dettando in quattro lingue e incoraggiando i giovani studenti a Macao. È stato un uomo straordinario che merita una grande rivalutazione, un uomo di cui noi italiani non possiamo che essere fieri.