LA FORMAZIONE TECNICA FRA CULTURA E IMPRESA

Qualifiche dell'autore: 
vicepresidente dell’Associazione Amici del Museo del Patrimonio Industriale, Bologna

In qualità di vicepresidente dell’Associazione Amici del Museo del Patrimonio Industriale, può raccontarci come sorge l’idea di rilanciare la professionalità tecnica come questione culturale dell’Emilia Romagna?
L’Associazione Amici del Museo del Patrimonio Industriale nasce nel 1997 per valorizzare il tessuto industriale di Bologna con la promozione di azioni di sviluppo e innovazione e coinvolge giovani studenti in progetti dedicati alla costruzione di una nuova relazione fra il sistema formativo e quello industriale. Lungo questo percorso, abbiamo messo in discussione i criteri di produzione e trasmissione del sapere tecnico nel nostro sistema scolastico e universitario, sempre più lontani dalle esigenze dell’impresa. È molto difficile generare progresso nel nostro distretto, che rischia di essere travolto dall’indifferenza e da un sistema formativo che, per stare in equilibrio e accontentare tutti, non è più capace di mettere in discussione il suo stesso funzionamento e quindi d’innovare.
Come spiega questa indifferenza in materia di cultura tecnica?
Oggi, se un ragazzo studia un po’ di matematica e magari è anche diligente, viene considerato un bravo studente e mandato al liceo scientifico. Questo percorso vale quasi nell’80 per cento dei casi. Un ragazzo che non rende negli studi sarà consigliato d’iscriversi all’istituto tecnico. Mentre sono convinto che la formazione umanistica genera le competenze linguistiche che sono la base per lo sviluppo dell’intelletto, constato che sulla formazione tecnica pesa un grave pregiudizio, nell’erronea convinzione che costituisca la cosiddetta formazione professionale.
Il mondo della formazione oggi potrebbe ispirarsi alla bottega del rinascimento per promuovere una nuova scuola come dispositivo d’invenzione, fra tradizione e innovazione…
Per sviluppare una collaborazione tra istituti superiori e imprese, favorendo lo spirito imprenditoriale, abbiamo istituito il Programma Quadrifoglio, che sviluppa un percorso di attività a vari livelli di formazione. S’incomincia alle scuole medie, con giornate di orientamento verso la cultura tecnico-scientifica. Nelle scuole superiori tecniche abbiamo avviato il progetto Fare Impresa, in cui gli studenti costruiscono prototipi d’impresa, mentre la terza tappa prevede uno specifico corso di laurea per periti all’Università di Ferrara. Infine, i neolaureati del Programma Quadrifoglio o di altri percorsi universitari compatibili hanno la possibilità di condurre un progetto innovativo per sei mesi in un centro di ricerca all’estero. Questo Programma, di cui sono stato il project manager, ha ricevuto numerosi riconoscimenti dalle istituzioni nazionali per la sua straordinaria e rivoluzionaria novità, ma sta giungendo a un epilogo forzato per l’esaurimento delle risorse finanziarie, che sono destinate per lo più agli apparati della formazione. La questione è che il sapere non è mai qualcosa di codificato in un libro di testo o verificabile con esami a quiz. Il sapere dev’essere frutto della combinazione fra teoria e pratica, altrimenti rischia di essere sterile e di creare miseria, anziché cultura.
A chi si rivolge la vostra Associazione?
In Emilia Romagna ci sono circa settemila imprese del settore metalmeccanico, quattrocento delle quali sono marchi importanti, le altre sono attività di servizi di sub-fornitura e comprendono anche le piccole aziende artigiane, quelle fino a trenta dipendenti e società di progettazione. Queste imprese potrebbero scomparire nei prossimi vent’anni, se non troviamo modi innovativi per conservare e trasmettere il sapere che il territorio ha prodotto in cinquecento anni.
L’automazione ha la capacità d’integrare varie discipline: chimica, fisica e meccanica. Così nel 1300 abbiamo capito come fare funzionare macchine con qualche goccia d’acqua che circolava nei canali d’estate, inventando il “mulino alla bolognese” con la ruota a cassetti e un sistema di trasmissione del moto che faceva funzionare mulini e opifici quasi in assenza di attrito e usura. Questa era la caratteristica del progetto bolognese di automazione: una macchina capace di essere affidabile e più flessibile delle altre.
La trasformazione è prima di tutto culturale, poi economica e poi politica…
Ancora oggi, se organizziamo visite nelle scuole per dire che vogliamo offrire elementi utili per dare ai giovani l’opportunità di divenire gli imprenditori del futuro, c’è il rischio che questo venga inteso come un messaggio di tipo politico. È più facile promuovere quella formazione che abitua l’individuo a essere un buon dipendente, che vive nella paura di perdere il lavoro. Questa è la paura da cui scaturiscono quell’insicurezza ontologica e quell’angoscia che contribuiscono a fare di un individuo un dipendente a vita e un perfetto consumatore acritico. L’impresa moderna ha bisogno invece di individui che possano fondare la propria impresa e sfruttare al massimo il proprio capitale intellettuale, magari lavorando anche il sabato e la domenica, se lo ritengono utile. L’individuo che si distingue è visto come un pericolo, una sorta di aggressione verso una società in cui occorre rimanere tutti allo stesso livello, essere tutti alla pari. Ma non dimentichiamo che questa mentalità favorisce la cultura del pauperismo e dell’invidia sociale.
Quali progetti ha la vostra Associazione per il futuro?
Abbiamo promosso l’Associazione ER-AMIAT (Emilia Romagna advanced mechanics and industrial automation technology), che accoglie le più importanti imprese dell’industria meccanica della regione, tutelandone gli interessi. Lo scopo principale è accreditare presso la CE le imprese manifatturiere senza intermediazioni per generare i finanziamenti all’innovazione che ci occorre.