LEONARDO, L'INGEGNO, LO SPETTACOLO

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professore di Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano

Quello che noi oggi chiamiamo rivoluzione di paradigma è stato introdotto da Leonardo da Vinci. È cambiato il paradigma del sapere, anche se purtroppo solo in parte. Qual è stata questa rivoluzione? Ne parlo per mostrare che è di grande attualità e la riepilogo con una sua battuta famosissima: “Sono un uomo senza lettere”, diceva. Che cosa voleva dire? Che era un ignorante? Ovviamente no, ma che il suo sapere non nasceva dai discorsi. Il cambiamento di paradigma, l’altro modo di guardare il sapere che nasceva nelle botteghe della Firenze del Quattrocento – non nelle Università, ma nelle botteghe –, non era retorico, verbalistico, non era costituito dal continuo commento dei testi degli antichi, non era costituito da quella sorta di umanesimo delle lettere che invece ha poi continuato a prevalere per una serie di ragioni anche politiche, ma nasceva dal fare le cose. Nasceva dalla mano, piuttosto che dalla lettera, nasceva dall’orecchio e dall’occhio, cioè dalla sensibilità.

Un altro motto di Leonardo, che ci fa andare subito al cuore della sua visione rivoluzionaria, recita: “È meglio sezionare che astrarre”. Poi, molto più avanti nel tempo, Bacone riprese questo motto dicendo: “Melius autem est naturam secare, quam abstrahere”. Cioè meglio prendere un oggetto e farlo a pezzi, guardare al suo interno, come fanno i bambini, anziché dare definizioni astratte rispondendo a domande come: che cos’è il movimento? che cos’è il sole? che cos’è la luna? che cos’è il calore? Le risposte a tali domande sono solo una serie di proposizioni verbose, semplici chiacchiere che, come diceva Bacone, non ci danno alcun potere sulla natura. Tali definizioni possono darci un orientamento, sono state sicuramente necessarie, importantissime, fondamentali, hanno disegnato una zona indispensabile del sapere occidentale. Occorre però considerare che quella sapienza è finita, continua solo a rimasticare se stessa. È invece meglio secare, tagliare. E questo vuol dire essere già nella realtà digitale, chi ragiona così è già arrivato a capire che la realtà di un oggetto va secata, rifatta e ricostruita a fettine, per avere l’oggetto nelle mani, per farlo proprio. Un sapere meno definito è puramente retorico. Ecco allora che al primo posto, in questa visione di Leonardo, non sta il logos, il discorso, la letteratura. Tutte cose bellissime che non sono certo da buttare via, ma il centro della nuova sapienza e del cambiamento di paradigma è l’ingenium, l’ingegno. L’ingegnere, parola che risuona nei testi di Leonardo, è colui che usa l’ingenium. Ma che cos’è l’ingegno? L’ingegno è l’arte. Si sente dire che il design è anche estetico. No signori, il design non è anche estetico. Questa è ancora una visione umanistica e retorica. O il design è arte o non è niente. E per arte dobbiamo intendere la capacità di produrre le cose, non la capacità di definirle esteticamente. Basta con l’estetica aristotelica, basta con l’estetica crociana. Dobbiamo comprendere che la visione bella delle cose, astratta dal loro uso quotidiano, dal loro uso nelle case, nella vita di ciascuno, destina le opere d’arte al museo, dove ovviamente le salviamo dalla morte. Ma tali opere sono già quasi morte, perché sono soltanto percorsi di una cultura di chiacchiere. Sono quei percorsi abbastanza penosi delle scolaresche messe in fila, con due o tre professori disperati che cercano d’interessare cinquanta ragazzi al panneggio delle vesti, mentre essi pensano a tutt’altro. Questa scuola non insegna più niente e non raggiunge più i nostri ragazzi perché non ha più alcunché di vitale da dare loro. Sarebbe molto più interessante se agli studenti mettessero in mano i colori e la tela da dipingere per far capire loro come si fa arte. Allora sì che comprenderebbero quanto è importante il panneggio, non perché glielo abbiamo spiegato, per astrazione, ma perché loro lo hanno sezionato, cimentandosi nel fare. Questa è cultura, con l’altra impostazione si fanno solo chiacchiere. Ed è naturale che i nostri ragazzi siano poco reattivi a questo tipo di tradizione di chiacchiere culturali, di programmi vecchi, stantii, di modi d’insegnare che ormai non afferrano più la realtà. 

Leonardo si è formato nelle botteghe, dove non gli insegnavano che cos’è l’estetica. La parola estetica non esisteva per lui in questa forma astratta, moderna o antichissima. Quando era ragazzo di bottega, gli dicevano: “Fammi un po’ di rosso, vedi quella roba lì? La pesti e ci metti un po’ d’acqua”. Così è stato allevato, così ha imparato il mestiere, cioè l’arte. Perché arte vuol dire téchne, vuol dire fare le cose, acquisire una tecnica. Non nel senso che la tecnica esclude la teoria, ma che la tecnica è un sapere in azione, un sapere attivo.

Allora capiamo la grande intuizione leonardesca: l’arte di tutte le arti, che vuol dire la scienza di tutte le scienze, è la pittura. Ma perché la pittura? Per intendere questo occorre leggere il libro di Armando Verdiglione, Leonardo da Vinci, che è originalissimo, perché l’autore ha capito cose che altri non hanno capito. Che cos’è la pittura? È la capacità di riprodurre il reale. Ma ri-produrre il reale non vuol dire darne un’immagine, vuol dire produrlo di nuovo. Vuol dire, ancora una volta, secare, tagliare, cioè mettersi in una prospettiva in cui far vedere com’è fatta la cosa, e rifacendola impadronirsene, farla propria, perché per la prima volta la si guarda com’è. In questa arte di riproduzione del reale c’è la virtualità. Quella che noi oggi chiamiamo realtà virtuale è un’invenzione di Leonardo. Lui naturalmente operava con i mezzi del suo tempo, ma concepiva la pittura così, non per le infinite chiacchiere estetiche dei critici letterari che non colgono l’essenza.

Per capire la personalità di Leonardo e la grandiosità della sua intuizione bisogna mettersi all’altezza di quello che lui ha visto nella pittura, non l’arte in senso estetico, ma lo spectaculum, lo spectare. Che cosa vuol dire spectare? Cicerone diceva “Spectatur ignibus aurum”. L’oro lo si saggia nel fuoco. Spectare, spectaculum, vuol dire mettere alla prova una cosa. Allora dipingere vuol dire mettere alla prova quella cosa. Dipingere il volo degli uccelli vuol dire mettere alla prova l’idea che ci siamo fatti del volo, tagliandolo a fettine, mettendolo in tutte le prospettive. Come diceva Leonardo, facendolo da un lato apparire in tutta la sua esteriorità e dall’altro ricostruendolo all’interno con la geometria. Quindi, matematica e pittura. Capite che questa strada non è stata seguita, non l’abbiamo seguita questa strada. Hanno vinto gli umanisti. Ha vinto Petrarca. Ha vinto la tradizione di una scuola aristocratica che coltivava i figli dei signori, li coltivava con la retorica, con la dottrina morale, con la capacità di argomentare i valori morali, ne faceva gentiluomini da grande salotto, li preparava alle grandi imprese politiche, mentre gli operatori tecnici erano considerati inferiori. Quella era la grande cultura aristocratica, Leonardo aveva invece il suo mondo nel rinascimento, ma il rinascimento ha perso, l’Italia ha perso, ha vinto l’Europa protestante, è stato condannato Galileo, ha vinto la scuola retorica umanistica fondata sul greco, sul latino, sull’ebraico. Non sto dicendo che dobbiamo tornare indietro. È successo quel che è successo, ma certamente questa impresa inaugurata da Leonardo si è fermata. In parte l’ha ripresa un po’ Cartesio, ma venendo a patti, inevitabilmente, distinguendo fra res cogitans e res extensa, l’anima e il corpo, altrimenti la Santa Romana Chiesa gli tagliava la testa o lo bruciava come ha fatto con Giordano Bruno. In Leonardo invece non c’è questo compromesso, in Leonardo la pittura è l’anima e la geometria è lo spirito, sono la cosa nella sua unità, e la sua unità è meccanica nel senso profondo della parola. È una mechané, un meccanismo, una proiezione nella macchina che viene umanizzata e resa possibile nei suoi usi infiniti. È una rivoluzione di paradigma, una rivoluzione nella scienza che arriverà fino al Settecento. 

Allora non è interessante il semplice produrre, produrre la merce, il prodotto in quanto valore di scambio, bensì produrre il prodotto come valore d’uso. E il valore d’uso del prodotto è la sua socialità. È importante produrre il quadro perché stia nella mia casa, non nel museo. Produrre le cose perché noi viviamo di quelle cose. Così lavorano le botteghe rinascimentali, questo è il lavoro che si fa nella Firenze del rinascimento, e così anche a Ferrara, a Milano, a Roma, le città frequentate dal nostro Leonardo. Dunque non importa una merce fatta pensando soltanto alla richiesta del mercato, per essere venduta e dunque tradotta in capitale finanziario. Il design non è questo, è un lavoro che collega molti campi, uno dei quali è l’utilità sociale del prodotto, il fatto che lo si consumi, che lo si usi, che ci si viva dentro, che ci si viva con, che ci si viva assieme. Allora ciò che è importante è che il prodotto sia spettacolare, che faccia spettacolo, che si renda fruibile come spettacolo. Pensate al fenomeno contemporaneo della spettacolarizzazione della cultura. Se ne può dire tutto il male che si vuole, è facile dire male della spettacolarizzazione della cultura e delle filosofie che si trovano nella strada, ma se tale spettacolarizzazione ha così successo qualche ragione ci sarà. E noi dobbiamo prenderne la parte costruttiva. È un modo per dire che ciò che si produce deve tornare tra la gente, deve essere creazione virtuale di contesti d’uso.*

*Il testo di Carlo Sini è tratto dal suo intervento al Forum internazionale La materia intellettuale (15 aprile 2011, Villa Cavazza, Bomporto, Modena).