LA SCRITTURA DELL'ESPERIENZA

Qualifiche dell'autore: 
cifrante, responsabile a Ferrara della Cooperativa Editrice Culturale Spirali/Vel e della Cooperativa Sociale “Sanitas atque Salus”

Tra le molte opere di cui Marco Maiocchi è autore, vi è un libro edito da Franco Angeli sulla programmazione strutturata. L’ho letto circa quindici anni fa quando, nell’ambito della programmazione, c’è stata una svolta straordinaria con il linguaggio Pascal, che ha introdotto un nuovo modo, un nuovo stile nella scrittura dei programmi, chiamata proprio “Programmazione Strutturata”. Questo stile sottolineava l’esigenza del rigore sia nella sintassi sia nella formalizzazione. Ma non basta la programmazione strutturata per concludere al Bel Programma.
È in questo libro recentemente pubblicato da Spirali edizioni, Il bel programma. Percezione, struttura e comunicazione, che Marco Maiocchi si accorge come sia impossibile modellare il Bel Programma. Programma che in questo caso va inteso come testo. La ricerca del modello del bello è un’idealizzazione della bellezza che impedisce alla ricerca scientifica, quale base dell’arte e dell’invenzione, di scriversi, a causa di una fantasia di padronanza sulle idee, che stabilisce così i canoni della sintassi e del funzionamento ritenendoli riproducibili. 

L’idea opera alla scrittura delle cose e il modello è da intendere in questa accezione, come operatore, come idea che opera alla scrittura dell’esperienza. Il Bel Programma è scrittura dell’esperienza, dunque, e lungo la sua esperienza Marco Maiocchi ha messo in gioco la sua formazione, la sua curiosità intellettuale, la sua intelligenza per indagare in vari ambiti – quali l’arte, la letteratura, la musica, il cinema fino alla ricetta di cucina – qual è la struttura del testo.
Struttura che non è strutturata né strutturabile. Struttura originaria, che non è fatta di contenuti trasmissibili dall’emittente al ricevente, ma rilascia una comunicazione quale struttura della parola originaria, ciascuna volta inedita. È per questa via che il testo, cioè il modo in cui l’esperienza si scrive, lungo il suo dirsi, il lungo il suo farsi, instaura altra comunicazione per via d’artificio, per via d’arte e di cultura, comunicazione che non ha nulla di spontaneo e di naturale perché attraversata dal tempo che sottolinea l’essenziale della conclusione, dell’occorrenza, dell’urgenza quali elementi propri dell’impresa.
E così dalla scrittura pragmatica – quale scrittura del fare, scrittura che procede secondo l’occorrenza – risalta la struttura originaria e quindi il modo secondo cui si svolgono e funzionano le cose.
La comunicazione che il testo rilascia è comunicazione indiretta ovvero non telepatica, non psicopatologica, non conflittuale in quanto è comunicazione che avviene perché le cose si scrivano. E si scrivono le cose che dicendosi si fanno. Questa è la vera comunicazione, questa è la telecomunicazione che tiene conto della procedura della parola e comporta effetti straordinari di trasformazione per ciascuno.
Il discorso occidentale tollera la comunicazione indiretta, ma la volgarizza, la animalizza, la pianifica in comunicazione diretta, propria al dialogo, quale interrogazione fondante la risposta, nel tentativo di gestire il sapere, di confiscare l’ascolto che sta tra il tempo e la piega della parola.
L’abbattimento delle torri voleva rappresentare il segno di una comunicazione diretta: l’11 settembre è avvenuto qualcosa che non è un fatto in quanto tale, ma sono piuttosto le conseguenze linguistiche che si sono scritte in un aut aut, in cui è stato rappresentato l’ultimo tempo, in una spettacolarità significata dall’esito scontato, saltando la comunicazione indiretta che trova compimento nella politica e nella diplomazia. 
Questione essenziale dunque quella della telecomunicazione, della scrittura della parola perché è la parola che scrivendosi giunge a comunicarsi e sul fatto in quanto tale non si instaura nessuna parola, ma solo pettegolezzo. 
Fu Freud a notare che la comunicazione non riporta le cose bensì le inventa e le istituisce perché la scrittura della parola si traduce, si trasmette e si traspone fino a divenire pragmatica, fino a divenire non soltanto un media, un mezzo per il messaggio, ma il messaggio stesso.
La telecomunicazione pone una questione di integrazione non di specializzazione ed esige la formazione intellettuale senza cui ciascuna questione viene rappresentata tra due: due stati, due religioni, due mondi, due imperi, due economie.
Il due viene così rappresentato come figura del dialogo che elude il dispositivo di parola e di comunicazione. 
E la rivoluzione telematica indica che non c’è più impero e che la trasformazione può avvenire solo in quanto trasformazione culturale, quindi trasformazione politica, quindi trasformazione economica.