OCCORRE SALVAGUARDARE LE DIFFERENZE

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professore di Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano

Un recente articolo su “La Repubblica” riportava una ricerca che pretendeva di confermare ben quindici differenze fra l’uomo e la donna. Lo studio, pubblicato sulla rivista “Public Library of Sciences”, è stato condotto da Marco Del Giudice, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, e da alcuni suoi colleghi della Manchester Business School, su un campione di diecimila americani. Da questa indagine è emerso che molti luoghi comuni non sempre sono tali: ci sarebbero realmente sensibili differenze fra uomo e donna – addirittura soltanto per il 10-20 per cento uomo e donna sarebbero sovrapponibili –, soprattutto per quanto concerne l’immaginazione, la creatività e l’intelligenza.

Non cito le quindici differenze, ormai risapute: le donne sono più sensibili, più emotive, ma in qualche modo più duttili, mentre gli uomini sono più responsabili, hanno una maggiore fermezza d’animo, nelle difficoltà sono più rudi e più forti, ma anche fragili e, nello stesso tempo, hanno una spiccata tendenza alla prepotenza e ad assumere il potere, mentre le donne sono più diplomatiche e più astute. Queste banalità ora sono state avvalorate dalla ricerca.

Qual è il problema di queste ricerche, come di tutte le statistiche? Che si basano su qualcosa che non esiste: “la donna” non esiste. Questo è il primo punto sul quale dobbiamo essere molto decisi. Difatti, questo psicologo e studioso dice che ovviamente ci sono poi le differenze individuali, che non seguono la regola. Ma le differenze individuali sono l’unica cosa che c’interessa. È vero che si può fare una statistica orientativa, ma bisogna ricordarsi che la statistica si basa su semplificazioni preliminari. E quale valore ha una statistica effettuata a partire da un’indagine su diecimila americani, con domande che nascono da pregiudizi radicati in chissà quali arcaismi? Nessuno, perché non c’interessa come sono “le donne”. C’interessa semmai come sono le donne di Catania, le donne di Chicago, le donne dell’India, e così via. C’interessa una donna in particolare.

Un relatore questa mattina accennava all’opportunità d’introdurre nell’impresa l’arte combinatoria: quando, per esempio, si fanno lavorare due persone nello stesso ufficio, si fa per favorire lo scambio non soltanto di competenze tecniche, ma anche di tante altre componenti. Questo ragionamento, che vale per l’impresa, perché non deve valere per la politica globale di questa terra? Perché questa terra deve essere asservita a un’unica idea d’impresa, di profitto, di merce, di relazioni sociali? Non è un’evidentissima prepotenza di natura maschile? Veniamo da un’effettiva preminenza politica, economica e sociale della parte maschile della popolazione, ma di una parte che proviene da un’unica area del mondo, quella nord-centrica. Perché tutto il mondo deve omologarsi come se quello fosse l’unico modo di fare impresa e profitto, di vivere bene su questa terra? Non hanno diritto anche le altre culture a essere coinvolte, convocate, promosse?

Sergio Dalla Val nel suo intervento diceva una cosa molto importante a proposito delle donne: “Lasciamole fare”. Lasciamole fare vuol dire lasciamo che siano loro a inventare i parametri, che siano loro a decidere quali sono le scale di valore. Perché se le scale di valore sono già precostituite, la loro particolarità è perduta.

Ritornando alla statistica, sono molto scettico sui risultati dell’università. Dopo tanti anni di lavoro come professore, ho l’impressione che l’università si sia costruita parametri così tradizionali, e quindi fatalmente maschili, che la creatività femminile, anziché essere esaltata, viene fatalmente appiattita all’interno delle università. Secondo le statistiche, infatti, le ragazze sono più diligenti dei ragazzi, meno ribelli e meno creative. Non è vero, se si sconta il fatto che abbiamo stabilito noi come devono lavorare, che cosa devono produrre e in che modo noi le valuteremo. Allora, lasciamo che siano loro stesse a dirci se preferiscono fare questo o quest’altro. E questo dobbiamo estenderlo a tutte le culture della terra perché le differenze sono la ricchezza dell’umanità. Senza le differenze siamo perduti. La natura vive di differenze. Se ci fosse un solo animale, non ci sarebbe la vita su questa terra. Se ci fosse una sola intelligenza, una sola creatività, una sola sensibilità, l’umanità sarebbe molto impoverita. Questa differenza era stata già sottolineata da Charles Darwin, quando notava, a modo suo, che la differenza fra l’uomo e la donna ha radici evolutive biologiche profonde che hanno dato luogo a un’evoluzione di milioni di anni, cui si è aggiunta un’evoluzione economica, sociale e politica. Come accade per la vita naturale, se una specie è in pericolo, deve inventare nuovi modi per sopravvivere. Se la specie femminile, con la sua intelligenza e sensibilità, il suo desiderio di gioia, di piacere e di vita, è stata messa in difficoltà negli ultimi quindicimila anni, ha sviluppato forze reattive straordinarie. Penso che sia fondamentale, per quanto possibile, salvaguardare le differenze, metterle alla prova, lasciarle esprimere.

Anche la cultura d’impresa, se modellata su un solo parametro – il successo che si misura sulla base del capitale finanziario accumulato –, è una storia finita. Nella situazione contingente in cui è sorta, ha avuto buone ragioni per imporsi, ma tali ragioni non sono “la” ragione e non sono l’umanità, l’economia, la politica. Bisogna avere il coraggio di considerare le differenze perché in un mondo globalizzato i paradossi dell’istituzione capitalistica dell’impresa emergeranno. Il paradosso è molto semplice, l’ha enunciato un grande economista, di assoluta fede liberista, John Maynard Keynes: “Attenzione, due cose il sistema capitalistico non è in grado di garantire: l’autoregolamentazione e il lavoro a tutti”. Per ragioni strutturali, perché se desse a tutti quello che tutti hanno messo nel prodotto, non ci sarebbe più nessuna capitalizzazione. È chiaro che noi dobbiamo riformare questo sistema, non buttarlo via. È una differenza troppo preziosa, troppo consistente, ha creato la ricchezza di molti paesi e tante altre cose. All’interno di questo sistema monolitico, però, dobbiamo dare spazio alle differenze infinite che ci vengono imposte proprio dalla sua diffusione planetaria. Per esempio, se un imprenditore o un’imprenditrice finlandese vanno a dirigere una manifattura a Palermo, devono capire che cos’è un siciliano e il siciliano deve capire cos’è un finlandese. E hanno entrambi da darsi, gli uni agli altri. Figuriamoci se parliamo degli indiani o dei cinesi. E tutti sappiamo che dobbiamo parlare di questo perché è il futuro che abbiamo davanti. E allora la politica non deve semplicemente accogliere più donne, ma deve accogliere più creatività materna, materna nel senso ampio che interessa le condizioni e la qualità di vita, al di là delle facili razionalizzazioni. La razionalizzazione è positiva, ma spesso è un modo per nascondere chi ha davvero il potere. C’è una logica perversa che crede che alcune scorciatoie conducano alla verità o alla buona vita. Le madri sanno che questo non è vero, che non ci sono semplificazioni, sanno che ogni figlio ha un suo modo, che ogni poppata è differente dall’altra, che ogni relazione ha un suo modo di tessersi. Questo è vero sempre nella vita. Certo bisogna integrare la necessità contingente, quello che si deve fare in ogni momento per sopravvivere, ma a un livello più ampio della politica le donne devono essere invitate a fare la loro parte, a dare il loro apporto a partire da ciò che fanno. E molte di loro hanno sicuramente qualcosa di nuovo e d’inaudito da proporre, perché sono state selezionate a guardare laddove noi non avevamo bisogno di guardare.